Ludopatia, la storia agghiacciante di una donna di 40 anni che si rovina per il gioco e si vende tutto
Si intitola “Azzardo”, è il romanzo autobiografico di Alessandra Mureddu che da donna racconta l’ingresso negli inferi della ludopatia: il conto in banca che si assottiglia, il tempo che si ferma. Testo feroce, durissimo

Nel quartiere dove abito, a Roma, il tabaccaio è all'ingresso del mercato rionale. In una parete grandissima sono esposti decine e decine e decine di Gratta e vinci. La mattina il negozio è pieno di donne di ogni età: hanno il carrello per la spesa, qualcuna un cagnetto al guinzaglio e comprano, comprano, comprano biglietti colorati. Sanno tutti i nomi: "Dammi un Miliardario, due Testa o Croce e uno Anni 70". Si mettono in un angoletto, a volte sullo stipite dell'ingresso o sul coperchio di un cassonetto in strada e "grattano", cercano la combinazione giusta, se vincono ricomprano altri tagliandi, ma anche se perdono non mollano: comprano per "rifarsi", ritentare. E' un ciclo continuo, una spirale. La più loquace mi spiega che oggi se ha fortuna farà "la spesa grande, prendo pure il pesce e i funghi buoni". "E se va male?", chiedo. "Mangeremo di meno, anzi magari non mangiamo", risponde sicura, senza muovere un muscolo del viso. Che è stanco.
La stanchezza che si trasforma in adrenalina, ossessione, delirio, attraversa ogni riga di Azzardo (Einaudi, pagg. 144, euro 15), esordio fulminante di Alessandra Mureddu, un romanzo autobiografico che racconta la ludopatia attraverso vari livelli: la relazione patologica con il padre giocatore "da redimere", la marginalità della figura materna, un rapporto sentimentale interrotto di colpo, una depressione profonda da gestire senza strumenti. Mureddu scrive: "Nella primavera del 2006 ho quarantuno anni e un corpo di marmo. Peso cinquantadue chili e vivo da sola. Il mio uomo la sera prima vuole un figlio, il mattino dopo se ne va e non torna più. Non ho tempo per soffrire, adotto un cane e un antidepressivo e decido che salverò mio padre". Lo pedina quando capisce che qualcosa non va e incontra un altro mondo. Quello che Mureddu non sa è che impiegherà otto anni nel tentativo di salvare sé stessa quando una mattina si sveglia e pesa 72 chili. Quando si vende l'oro di famiglia e fa i conti con i pochi spicci nel borsellino per comprare in un supermercato notturno i biscotti più economici per lei e la pappa per il cane. Quando diventa una tossica, una dipendente da gioco. "Vado in sala con la febbre, con la neve. Ci vado a Natale e a Capodanno. I vestiti non mi stanno più, porto tuniche nere lunghe fino alle caviglie, scarpe basse, ho i capelli bianchi a vista e le unghie spezzate, una casa tetra e trascurata".
Ha una scrittura fortissima Alessandra Mureddu, senza sconti senza fronzoli. Per giunta, a differenza di altri libri che affrontano la questione, l'autrice/io narrante è donna, come le tante in sala che sperano nella sequenza fortunata dei cinque frutti in fila o nella combinazione top dei "libri d'oro". Una scrittura secca, feroce come l'Azzardo che divora ogni cosa, oltre il conto in banca: divora il corpo, i sentimenti, il senso del sé e del tempo. Perché nelle sale gioco non ci sono finestre, il giorno e la notte si equivalgono, tutti ti guardano e nessuno ti vede, ti parla. Ma c'è un buon odore. " A ogni sala viene abbinata una profumazione, così il giocatore riconosce l’odore e si sente a casa. La profumazione viene diffusa anche all’esterno per invogliarlo ad entrare". E poi "ci sono dei piccoli altoparlanti nascosti nel controsoffitto che riproducono a tratti il suono dei Bonus", così si può immaginare che altre macchine stiano pagando. Il suono che accresce la voglia e dilata lo stimolo-risposta come per il cane di Pavlov con l'acquolina in bocca.
Sale da gioco che sono non luoghi per non vite, l'amplificazione della solitudine e un monitor come anestetico. Mureddu aveva raccontato il plot di questa storia su DoppioZero, la rivista culturale on line diretta da Marco Belpoliti. Einaudi ha pubblicato il romanzo nella collana 11 dedicata agli esordienti e a coloro che mettono al centro dell'opera le proprie esperienze, la loro vita. E Azzardo trabocca di vita, una vita mutilata, calpestata, limitata alla frazione di secondo in cui la macchinetta ingoia la banconota e inizia a fremere. "In sala mi conoscono tutti, non sono l’unica donna ma l’unica che non vuole esserlo. Sono intelligente, mi dico, ma non riesco a fermarmi. La sera segno su un quaderno quanto mi resta da spendere fino alla fine del mese, divido l’importo per i giorni e ottengo altri zerovirgola coi quali dovrò mangiare, fumare e comprare la pappa al cane. Ogni volta giuro a me stessa che quella sarà l’ultima, ogni volta torno in sala senza poter decidere altro, ho una corda legata al collo che mi strozza e mi porta lì".
Una vita ferita, strozzata ma che a un certo punto si ribella alla sconfitta. "Vincere non mi interessa più, anzi mi interessa perdere, così mi posso fare ancora più schifo, posso provare un dolore più forte, sentirmi stordita come un pugile al tappeto. Morta, in una parola".
Non è morto chi chiede aiuto. Si chiamano "Giocatori anonimi", come gli alcolisti. La stessa angoscia per l'astinenza, lo stesso terrore per le ricadute, la medesima necessità di farsi forza a vicenda: battere le mani e stringersele forte, piccoli regali, una telefonata in piena notte, gli abbracci, le lacrime. "Poi andiamo fuori a vedere i colori senza la cataratta della dipendenza".
Oltre 1,3 milioni sono gli italiani malati patologici di dipendenza da gioco d'azzardo. Poco meno del 10% (circa 12mila) è in cura. Secondo i dati Nomisma, relativi al 2020, il 42% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni ha giocato d'azzardo, il 9% ha sviluppato ripercussioni negative sulla sfera socio-emotiva e relazionale. Gli over 65% sono il 25%. Il giro d'affari complessivo ha raggiunto gli 88,38 miliardi di euro.
