"Le guardie ci consideravano animali": la testimonianza shock di un ex detenuto della prigione di Mandela
Thulani Mabaso, ex prigioniero politico del regime segregazionista del Sud Africa, descrive le torture subite e le battaglie nell'ex carcere diventato museo e sito dell'Unesco: "Ricordare è doloroso ma necessario"


“Venni torturato, le guardie mi legarono le mani dietro la schiena, mi misero un fazzoletto in bocca e me la tapparono con del nastro adesivo, mi incappucciarono, mi gettarono addosso acqua fredda, mi fecero un elettrochoc finché non svenni. Per gli effetti della tortura ero andato di corpo. Mi obbligarono a mangiare le mie feci”. Chi racconta la tortura subita, con tono fermo e un dolore che traspare nonostante gli anni passati, è Thulani Mabaso. Il luogo è l’infame ex carcere di Robben Island diventato nel 1999 sito patrimonio dell’Unesco nell’’isola “delle foche” a una dozzina di chilometri via mare a nord ovest da Città del Capo, in Sud Africa.
Le torture erano pratiche costanti: le infliggevano i carnefici della prigione, le guardie, invariabilmente bianche, esecutori materiali del regime razzista e para-nazista dell’apartheid che ha marchiato a sangue la vita e la storia del paese africano dal 1948 ai primissimi degli anni ’90. Il Sud Africa uscì dalla vergognosa condizione segregazionista senza precipitare un bagno di sangue grazie al genio politico di Nelson Mandela che fece istituire una Truth and Reconciliation Commission dove gli autori degli innumerevoli crimini contro i neri potevano confessare pubblicamente i loro atti e dichiarare il proprio pentimento.
La detenzione di Nelson Mandela
Tra quelle mura e dietro quelle sbarre il leader e riferimento dell’African National Congress Nelson Mandela trascorse dal 1964 quasi 18 dei 27 anni di detenzione (era detenuto dal 1962 con una condanna all’ergastolo), cui seguirono altri otto abbondanti in una prigione a Città del Capo. Il già presidente della nazione arcobaleno dal 1994 al 1999 e Nobel per la pace nel 1993 poté abbandonare per sempre la soglia del carcere nel 1990 a 71 anni quando la pressione internazionale si fece insostenibile per il regime segregazionista ormai prossimo a crollare: il primo ministro Frederik De Klerk, che lavorò con il leader per un processo pacifico di cambiamento, ne firmò la liberazione. La sua cella di isolamento, come ogni cella a Robben Island, è angusta ed è una tappa cui nessuno che passa di qui vuole rinunciare.
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La prigione di Robben Island è oggi un museo
La prigione dell’isola è oggi un museo alquanto particolare, meta di un coinvolgente e appassionante tour ben organizzato: è molto frequentato e conduce i visitatori nei freddi edifici della prigione, oggi lindi e ben areati come i prigionieri neppure si sognavano. Il viaggio da Città del Capo su un grande catamarano è rapido e tranquillo e porta all’isola che dal 17esimo secolo venne usata come luogo di detenzione per criminali, come ospedale di isolamento per i malati di lebbra, come base militare, fino al carcere durissimo, torture incluso, della fase finale: insieme a criminali comuni qui il regime relegava gli oppositori neri alla dittatura razzista che collocava i bianchi sul gradino più alto e riteneva inferiori (e trattava di conseguenza), gli indiani e i coloured (i misti, in altre parole) e, sotto a tutti, i neri. Una minoranza con meno del 20% degli abitanti soggiogava la stragrande maggioranza dei sudafricani con la violenza e un apparato poliziesco-militare molto potente e attrezzato.

L’ex detenuto Thulani Mabaso: “Ricordare è doloroso ma necessario”
Thulani Mabaso è uno degli ex detenuti di Robben Island che, nel suo caso dal 2002, si presta a far da guida, indispensabile, a chi viene qua per conoscere o per ricordare. Quando parla tutti ascoltano in un silenzio partecipe. “Tornare è doloroso, ma è necessario raccontare cosa è accaduto qui”, confessa l’anziano signore che non rinuncia a una riflessione amara sul “dopo” apartheid. “Allora le guardie ci consideravano animali, oggi molti di coloro che affrontarono la Truth and Reconciliation Commission fanno una bella vita, dirigono imprese, non hanno mostrato alcun pentimento né chiesto scusa. Questo ci addolora molto”. Un dolore più che motivato. “Invece alcune guardie simpatizzarono con noi perché li educammo. Per esempio Christo Brand: diventammo e siamo ancora amici, ogni tanto ceniamo insieme”. E anche l’ex guardia è tra coloro che si prestano a far da guida ai visitatori e a raccontare.
L’ex prigioniero: “Mandela diceva di educare e studiare”
Con quel verbo, “educare”, Mabaso introduce un elemento molto rilevante, solo in apparenza paradossale, nella storia di Robben Island elevata a prigione per gli oppositori dell’apartheid, oltre che per i criminali comuni. Tra le celle dove per anni i prigionieri dormivano per terra con solo una striminzita coperta, in edifici segnati da una pesante umidità e infiltrazione, dove l’acqua per lavarsi “era salata e fredda”, i detenuti formavano una sorta di “università”. “Mandela diceva: non fate a botte o litigate, fornite un’educazione politica agli altri prigionieri, i detenuti devono studiare, noi siamo il futuro. Il governo negò il permesso, sosteneva che studiare era un privilegio, non un diritto, finché la pressione non lo costrinse a cedere. Robben Island divenne una delle nostre università migliori”, prosegue con una certa ironia Mabaso: “Molti detenuti comuni qui divennero prigionieri politici – ricorda – anche se il governo non ci riconosceva come prigionieri politici e ci considerava una minaccia allo Stato sudafricano”.
La Bibbia e Shakespeare di nascosto dietro le sbarre
L’ex detenuto ricorda come lui e i colleghi riuscivano abilmente a far entrare di nascosto dei giornali. Dopo una lunga battaglia i prigionieri politici riuscirono a portare tra le mura una Bibbia. Leggere, per molti, era un esercizio essenziale.
Qui si inserisce una storia curiosa: camuffato da testo biblico, entrò fra quelle mura un volume molto corposo, William Shakespeare. The Complete Works, che includeva i testi teatrali e i sonetti di un autore che numerosi detenuti avevano studiato a scuola. Apparteneva al prigioniero politico Sonny Venkatrathnman il quale fece circolare il libro e chiese ai detenuti, tra cui Mandela, di segnare i loro passaggi preferiti mettendo data e firma. Il “Robben Island Shakespeare” è diventato un testo teatrale del drammaturgo sudafricano nero Matthew Hahn rappresentato nel carcere stesso, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ed è stato pubblicato nel 2017 dalla casa editrice britannica Bloomsbury con testo, riepilogo dell’intera vicenda e il titolo omonimo.
Un’alimentazione ridotta al minimo e lavori forzati
La lotta di opposizione imboccava anche vie fantasiose e imprevedibili. La vita, tra quelle mura, restava estrema, durissima. Con un’alimentazione ridotta al minimo e impartita a seconda del colore della pelle (ai neri le dosi sufficienti appena per sopravvivere, poco più ai “colored” e agli indiani), umiliazioni, torture, vessazioni, la detenzione includeva otto ore al giorno dal lunedì al venerdì a spaccare pietre in una vicina cava di calcare, ovviamente sia che piovesse, facesse freddo o un caldo soffocante. Con quelle pietre dovettero costruire l’ampliamento della prigione incluso l’ingresso.
Mabaso: “Siamo un patrimonio culturale vivo”
Condannato a 18 anni per terrorismo, “senza aver mai ucciso nessuno”, precisa Mabaso, ne ha passati dieci in prigione, di cui gli ultimi cinque tra le mura dell’isola di fronte a Città del Capo dove organizzò numerosi scioperi della fame. Uscì nel 1991, l’anno in cui vennero liberati gli ultimi detenuti politici. “Robben Island non è più un carcere dal 1996 quando i detenuti criminali vennero spostati, nel 1997 l’isola ha aperto come museo, dal 1999 è un sito del patrimonio culturale dell’Unesco. È un museo vivente e persone come me sono un’eredità culturale, un patrimonio vivo”, conclude Thulani Mabaso. Mentre sul cortile della prigione passano gabbiani che l’ex detenuto poteva a malapena scorgere tra le sbarre, Mabaso è ben determinato a trasmettere una storia personale e collettiva alle nuove generazioni e a chiunque voglia conoscere almeno un po’ di questa tragedia intrisa di razzismo. Una malattia da cui purtroppo neppure l’Italia e l’Europa sono immuni.