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Battiato e il calcio, storia di una passione che gli costò il naso:"Il mio autogol meraviglioso"

«Il calcio mi ha trasmesso sensazioni metafisiche: quando andavamo in trasferta, nei vari paesi siciliani, avevo l’impressione che ogni paese fosse avvolto da una specie di personalità, che dava un sapore diverso a ogni luogo»

Nicola Muscasdi Nicola Muscas   

Su Franco Battiato si è detto tanto, tutto, in questi giorni di grande commozione che hanno accompagnato la sua morte. Si è detto persino dell’indicibile, ovvero del suo rapporto con il calcio, vissuto non da tifoso quanto piuttosto da praticante, in giovane età, e da cercatore di bellezza poi.

Per decenni argomento tabù della cultura italiana, il calcio è stato passione (spesso segreta) di molti intellettuali, specie dei più rigorosi, degli spiriti liberi. Forse come reazione allo sguardo di sufficienza dei colleghi, magari come esercizio di emancipazione dallo stereotipo, più probabilmente come valvola sfogo di una pulsione sincera. 

Saba, Pasolini, Sereni, Biancardi, Bene, Arpino, Soldati, per dirne alcuni. Eppure gran parte degli intellettuali hanno spesso giudicato il calcio come un fatto un po’ primitivo e sostanzialmente di destra. Poco se ne scriveva, poco se ne voleva pubblicare. Sarà che lo sport si è portato dietro per troppo tempo il marchio d’infamia della propaganda fascista; sarà che i troppi soldi che lo hanno attraversato hanno attirato gli strali dell’anticapitalismo militante.

Al punto che Vittorio Sereni si domandava: «Come fa uno che scrive, che ha letto certi libri, un “intellettuale” ad appassionarsi, a prendere sul serio la partita della domenica e il campionato e i campioni del pallone?». E si rispondeva che il calcio è uno spettacolo capace «di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni: al limite, nella sua monotonia».

Luciano Bianciardi, l’intransigente Bianciardi, finì per curare una rubrica sul Guerin Sportivo, su invito di Gianni Brera: «Mio figlio mi chiede come mai proprio io, che sono una persona seria, adesso mi occupo di sport. Beh, gli ho risposto, perché sono una persona seria». Nella sua corrispondenza coi lettori parlava di Moravia e Gianni Rivera, di Don Abbondio e Valcareggi. Bianciardi che era amico di un grande allenatore come Manlio Scopigno con il quale condivideva la passione per la vodka e i libri di un emergente Philip Roth.

«Un po’ di leggerezza e di stupidità», cantava invece Battiato, che quella leggerezza sapeva praticarla, quella certa stupidità che impedisce alle cose di prendere il sopravvento sulla vita. Parole che risuonano come una didascalia per questa foto: un Battiato in braghe cortissime, addosso la maglia della Nazionale cantanti. È il 1985, sorride, un sorriso di autoironica rassegnazione durante una partita a San Siro contro la Nazionale femminile. «Rischiai un infarto – dice alla Gazzetta dello sport nel ‘97 – per sventare gli scatti di una biondona. Non toccavo palla da 22 anni. Dopo dieci minuti iniziai a vedere nero e uscii».

Battiato ha praticato il pallone sui campi di provincia sino all’età di 17 anni, sapendone cogliere lo spirito identitario, la forza popolare, il senso di comunità: «Il calcio mi ha trasmesso sensazioni metafisiche: quando andavamo in trasferta, nei vari paesi siciliani, avevo l’impressione che ogni paese fosse avvolto da una specie di personalità, che dava un sapore diverso a ogni luogo».

Ne parla in un’intervista a Gianni Minà, ricordando quel periodo lontano nel tempo, tra gli anni ’50 e ’60. «Ruolo?», chiede Minà. «Naturalmente, seguendo la mia natura, ero uno dei primi liberi», risponde Battiato con quel suo gusto per la battuta, abbandonando l’aura del santone che si è ritrovata cucita addosso per tutta la vita. Ma chi lo ha conosciuto parla di lui come di un uomo capace di maneggiare l’ironia. Ce ne accorgiamo quando racconta di una svirgolata assassina durante una partita del suo Riposto contro l’Acireale: «Intercettai maldestramente un passaggio e spedii la palla all’incrocio. Un autogol meraviglioso».

Il calcio è anche all’origine di quel suo naso alla Cyrano, figlio di un palo preso in faccia dopo uno sgambetto in area di rigore. «Sono stato svenuto per trequarti d’ora, quando mi sono svegliato ho ritrovato questa matassa che mi è rimasta per tutta la vita». In età adulta non ha smesso di apprezzarne l’estetica, i valori: «Simpatizzo per squadre che giocano bene, formazioni senza fuoriclasse, ma con un'anima».

Battiato lo spirituale, l’asceta, il meditatore, Battiato il Maestro. Eppure eccolo lì, con certi sorrisi pieni di gioia, con quel suo naso bitorzoluto a parlare di pallone. Un po’ di leggerezza, cantava, e di stupidità.

Nicola Muscasdi Nicola Muscas   
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