"Né con Putin né con la Nato". E l'Ucraina? Il paradosso degli intellettuali italiani incapaci di schierarsi con le vittime
Canfora, Rovelli, Di Cesare, Cardini: quando l'intellighenzia fatica a raccontarci la differenza tra aggressori e aggrediti. E' un concetto semplice e binario, è vero. Ma è l'unico consentito davanti alla devastazione, qualunque devastazione
Ci sono i pacifisti ad oltranza, quelli che "meglio non intervenire" in alcun modo. Quelli che alzano le mani dai loro privati salotti: se la vedessero i superstiti di Kiev, se la vedessero i disperati di Mariupol costretti ad una riediezione dello Holodomor stalinista: morire di fame come nel 1927. Se la vedessero i civili dell'Ucraina: massacrati, in fuga, quelli che scavano fosse comuni, si difendono come Pollicino con le molotov e i sacchetti di sabbia. Perfino l'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, in una criticatissima nota dello scorso febbraio (poi rivista) scriveva del riconoscimento del Donbass da parte della Russia come "ultimo, drammatico atto di una sequenza di eventi innescata dal continuo allargamento della Nato vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia".
Ora, avere dubbi è legittimo. Ci sono molti attori in campo, non tutti facilmente decifrabili. C'è un lungo passato, dietro. La longa mano dell'Atlantismo, le mire di Putin che lo sappiamo, lo vediamo non rappresenta tutti i russi, gli errori anche di Zelensky. La domanda semmai è: le perplessità possono aiutarci a capire o ci impantanano in un dibattito da tinello mentre in Ucraina la gente muore per davvero? Soprattutto l'uso dei paradigmi del Novecento ci permetterà di capire i fatti di oggi? Il dogma, insomma, sarà bussola o zavorra?
Vediamo le posizioni in campo, le più contrastanti, quelle che hanno scatenato reazioni, posizioni, hanno fatto discutere. Specialmente a sinistra, che come scrive Concita De Gregorio su La Repubblica "è luogo dove più si dibatte fino allo sfinimento e alla polverizzazione".
Ci sono gli storici come Luciano Canfora, filologo, saggista, professore emerito dell’Università di Bari, che ripercorre il filo della memoria all'indietro e non ha dubbi su questa maledetta guerra. E a Il Riformista dice: "E' un conflitto tra potenze. È inutile cercare di inchiodare sull’ideologia i buoni e i cattivi, le democrazie e i regimi autocratici… Ciò che sfugge è che il vero conflitto è tra la Russia e la Nato. Per interposta Ucraina. Che si è resa pedina di un gioco più grande. Un gioco che non è iniziato avanti ieri ma è cominciato almeno dal 2014, dopo il colpo di Stato a Kiev che cacciò Yanukovich". Ha parole durissime per Zelensky, il professore, ricorda un articolo del Guardian che anni fa dipingeva il leader ucraino come uno strano, inquietante uomo di potere, molto distante dalla narrazione dell'eroe che combatte per la propria terra. Condivisibile? Forse. Il problema è che sulla Gazzetta del Mezzogiorno Canfora definisce i profughi "passanti", liquida le drammatiche immagini di una partoriente in fuga come "un caso a sé stante". Apriti cielo, verrebbe da dire. Se non fosse che il cielo in Ucraina si apre per davvero e vomita bombe sui "passanti".
C'è la filosofa Donatella Di Cesare, donna colta e intelligente, che si sente preda di un maccartismo diffuso, quella corrente di pensiero anticomunista nell'America degli anni 50, e che su La Stampa scrive "Putin non è Hitler, il 2022 non è il 1938. In Ucraina non c'è una guerra civile, quindi non si può Parlare di Resistenza. E la piazza di Firenze che sabato 12 ha applaudito la richiesta di Zelensky di una no-fly zone, cioè la guerra, è già una piazza interventista". E attacca quello che definisce "un pensiero manicheo".
C'è il professor Cacciari, altro celebratissimo filosofo, che all'Adn Kronos spiega: "E' giusto dire con chiarezza da che parte si sta, ma questo non significa portare il cervello all'ammasso. Il conflitto lì c'è da almeno 12 anni e l'Europa cosa ha fatto? Non poteva muoversi un po' prima, valutare con più realismo le posizioni russe ed evitare che la situazione precipitasse in questo modo?".
C'è anche il fisico Carlo Rovelli che posta su Facebook foto di altre guerre e con vago sarcasmo scrive: "Kiev? Ah no? E' l'Afghanistan, è lo Yemen", poi riceve messaggi di morte da presunti pacifisti, e chiarisce: “Nell’immediato, l’unico risultato del fornire armi all’Ucraina sarà quello di far soffrire di più gli ucraini, provocando più morti sia tra loro che tra i russi; in prospettiva, rifiutandoci di accettare compromessi e di prendere atto che non siamo i padroni del mondo e che non possiamo decidere tutto, rischiamo di avere un altro secolo di sofferenze e devastazioni, proprio come il Novecento”.
C'è l'analisi di Alessandro Portelli, anglista. Che sul Manifesto scrive: "Non credo che ci fossero dubbi sulla moralità della resistenza nel Rojava. Però non solo non gli abbiamo mandato armi, ma mentre paragoniamo chi si arruola per combattere col battaglione Azov alle Brigate Internazionali di Spagna, gli italiani che sono andati a combattere nel Rojava li teniamo sotto sorveglianza di polizia perché possibili minacce all’ordine pubblico. È vero che il Rojava non stava «nel cuore dell’Europa»: stava in Turchia, paese nostro alleato, nel cuore della Nato, portatore dei nostri valori occidentali". Questo per rispondere a Luigi Manconi, sociologo, presidente di "A Buon diritto", uno dei pochi a prendere con chiarezza le parti degli aggrediti anche con sostegno militare, che su La Repubblica ha parlato di "Resistenza armata etica" in Ucraina. E citando Beppe Fenoglio (ma anche l'articolo 11 della Costituzione) ha snocciolato "tutte le ragioni per non considerare un errore irreparabile l'invio di mezzi militari agli ucraini per contrastare l'invasione russa".
Anche a destra non va meglio. Franco Cardini, il medievista dell'Università di Siena, ospite su La7 di Myrta Merlino attacca solo gli Stati Uniti e sostiene: "questa è una storia iniziata nel 1994 quando la Nato sotto il comando degli Stati Uniti ha cominciato ad attaccare la Bosnia. Non ci sono bambini che si stringono ai loro peluche o vecchiette che attraversano la strada soltanto a Kiev. Quando bombardavano Belgrado non ce li hanno fatti vedere. E neppure "quando vedevamo il bombardamento di Baghdad. Vedevamo le luci verdi e dorate, ma sotto c'erano i bambini".
E' un gran mix di posizioni, alcune sovrapposte e sovrapponibili: anti militaristi, anti americani, anti Nato, yankee go home, russofili, comunisti con doppio pugno chiuso, filo imperialisti loro malgrado, dubbiosi, pacifisti, terzomondisti, contrari al sistema, quelli che "ci sono morti di serie A e serie B" o "profughi più profughi degli altri". A leggerli, a discuterci sembra che l'orologio della storia si sia inceppato da qualche parte, in qualche anfratto epico, e che le guerre siano terreno di una formidabile dissertazione colta, priva di dolori, coinvolgimenti. Di fatto l'intellighenzia italiana a sinistra discute e soprattutto fa discutere. Un manipolo di specchiati intellettuali. I "né né", né con Putin, né con la Nato. Ma sia detto, almeno a solidarietà pubblicamente espressa, neppure con gli ucraini.
Canfora, che non ha neanche whatsapp e non segue i social, dubito sappia di essere diventato una star tra i no vax di Telegram, quelli che in nome della battaglia contro il presunto complotto degli americani di Big Pharma ieri manifestavano contro il Green Pass, oggi appoggiano a corrente alternata sia il Putinismo guerrafondaio ma anche i nazisti di Belgrado che sostengono il "compagno" Zar.
Poi ci sono, in parallelo, quelli che si chiedono perché questa guerra sia più sentita di altre, più commentata, raccontata delle altre. In Inghilterra è in atto una discussione simile, cominciata a colpi di tv tra Al Jazeera, Cbs e BBC. La domanda che rimbalza è: "L'Occidente è più solidale con gli ucraini per il colore della pelle? Per il ceppo caucasico? Come mai l'Europa si è disinteressata della mattanza in Libia, che in fondo dista poche miglia dall'Italia?". O di Gaza, o della Siria che resta un immane problema per l'Europa. Il corrispondentedi CBS News a Kiev, Charlie D'Agata, ha dichiarato in diretta (per poi scusarsi): "Questo non è un posto come l'Iraq o l'Afghanistan, che ha visto infuriare il conflitto per decenni. Questa è una città relativamente civile, relativamente europea".
Relativamente civile parrebbe anche il dibattito che infervora i "né né" d'Italia. Poi, purtroppo, oltre la disputa a suon di chiacchiere, tra i "se" e i "ma", nella scalata lungo lo scivoloso castello ideologico, svanisce la pietas nei confronti delle vittime e la capacità di uno sguardo largo sulle conseguenze di questa ennesima guerra.
Sono così necessari, insomma, i distinguo ora? Chi salveranno soprattutto? Perché di questo banalmente si tratta. Scegliersi la parte dietro la Linea Gotica: o con gli aggressori o con gli aggrediti. E' un concetto semplice e binario, è vero. Ma è l'unico consentito davanti alla devastazione, qualunque devastazione.