La guerra dei Talebani alla musica: così a Kabul il regime condanna a morte chi suona
L'ultima vittima è Fawad Andarab. Ma nel mirino ci sono un'orchestra femminile, i palinsesti di radio e tv e una ragazza scomoda

Sulla homepage di Arman Fm, una delle radio afghane più note, continua a campeggiare la scritta "Music never ends". Eppure la musica, nella realtà, è finita. Basta sintonizzarsi sul sito dell'emittente per averne la certezza. Al microfono si alternano solo voci, tutte maschili. E dal palinsesto sono scomparse le conduttrici, perfino le loro foto. Cancellare la musica è stato uno dei primi diktat dei Talebani dopo la riconquista di Kabul. Il portavoce Zabihullah Mujahid lo ha ribadito in un'intervista al New York Times: «La musica è proibita nell’Islam. Non ci saranno concerti, non ci saranno trasmissioni radiofoniche che la contengano e i programmi televisivi non avranno sigle".
E' un odio antico quello dei Talebani nei confronti dei suoni: troppo scomoda la musica, capace di far riflettere o di incitare sentimenti di rivolta, semi di ribellione. "Consegnare bellezza a un popolo - diceva Peppino Impastato - vuol dire fornirlo di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà". Per questo i dittatori preferiscono il silenzio. Le canzoni d'altra parte spesso contengono messaggi di libertà e di conseguenza sono un pericolo per il regime. A fuoco le discoteche, zittite le radio mentre è partita la caccia ai musicisti che in questa furia iconoclasta, tribale e feroce contro la cultura rischiano la vita. Come è accaduto al cantante folk Fawad Andarabi, massacrato dai fondamentalisti lo scorso 29 agosto. Il problema non è tanto l'ibridazione dell'attuale produzione musicale afghana con i ritmi e le mode dell'Occidente. I Talebani aggrediscono allo stesso modo, senza fare distinzioni, il patrimonio sonoro classico dell'Afghanistan, quel crocevia di influenze indiane, persiane, arabe, un mondo di partiture in cui prendono voce strumenti meravigliosi come il sitar, il tambur, il sarod.
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La resistenza dei musicisti in Afghanistan
La giornalista pakistana Zubeida Mustafa prova a spiegarne i motivi: "L'interpretazione wahhabita della legge della sharia sostiene che la musica suscita passioni improprie in musulmani altrimenti onesti e per questo deve essere vietata. E' una interpretazione folle del Sacro Corano. La realtà è che il suono è un potente magnete sociale. E questo spaventa a morte i dittatori".
Un Paese silenziato, dunque. Massood Sanjer, direttore dell'intrattenimento per Moby Group, la più grande società di media dell'Afghanistan ed ex deejay di Arman FM, non ha mai scordato ciò che accadde alla fine degli anni '90, quando i Talebani si presero Kabul. All'epoca il regime lo costrinse a leggere la propaganda quotidiana su Voice of Sharia, l'organo radiofonico statale. Sanjer racconta ancora con un misto di stupore e di incredulità quella che fu una delle prime richieste dei Talebani durante i negoziati di pace di Doha: la chiusura "per sempre" di un programma televisivo. Quella trasmissione - una sorta di X Factor - si intitola Afghan Star. E' un talent nato nel 2005 dal successo clamoroso, tanto che gli è stato dedicato anche un film, la cui protagonista è una ragazzina dalla voce formidabile che rischia la vita pur di esibirsi in pubblico. Difficile immaginare una nuova edizione dello show. Come difficile, anzi difficilissimo, appare il futuro dell'Istituto Nazionale di Musica dell'Afghanistan (Anim), una scuola di accoglienza e cultura voluta nel 2010 da un etnomusicologo, Ahmad Naser Sarmast.
In undici anni l'Anim è riuscito a restituire una vita ad almeno 400 bambini orfani, abbandonati, senza casa, costretti a mendicare nei sobborghi di Kabul. Li ha dotati di uno strumento, ha insegnato loro l'arte della musica - dai tradizionali afghani a Beethoven - li ha affidati a maestri provenienti anche dagli Stati Uniti, dall'Australia, dalla Russia e dall'India. Un Istituto che è una casa, una scuola, un luogo di incontro e di sapienza con le sue classi miste e con la Zohra Orchestra tutta femminile, diretta da Negin Khpalwak, prima ragazza afghana sul podio. La storia di questa giovane artista è tanto impervia che sembra contenerne altre mille: nata nella provincia di Konar, al confine con il Pakistan, abbandonata a 6 anni dalla famiglia troppo povera in un orfanatrofio di Kabul, inizia a prendere lezioni di piano per gioco. Ma ha talento, così tanto, che Ahmad Naser Sarmast insiste per farla studiare. E ha ragione.
L'Orchestra femminile afghana si è esibita in tutto il mondo e al World Economic Forum, ha suonato nel film candidato all'Oscar 2017 The Breadwinner prodotto da Angelina Jolie, meritando ovunque lodi e applausi. Negin Khpalwak, con il suo foulard nero rosso e verde, i colori della bandiera afghana, è da tempo un bersaglio dei Talebani. "Sono un musicista, sono una reproba", ha detto anni fa a Repubblica. Ma essere un simbolo non aiuta. Anzi. E per fortuna ora è riuscita a mettersi in salvo con un visto e il cuore in gola. Come Samarst che vive in Australia dopo un attentato a Kabul durante un concerto nel 2014, un attacco mirato. I fondamentalisti lo volevano morto, l'esecuzione non è riuscita ma lo scoppio della bomba gli ha provocato una quasi sordità permanente, un insulto per un musicista.
Sarmast ha raccontato alla Bbc che già lo scorso novembre "ci sono stati almeno sei incidenti in cui i Talebani hanno punito i miei allievi, distrutto i loro strumenti musicali, interrompendo le feste di matrimonio dove si canta, e poi radendo la testa degli artisti, trascinandoli nei villaggi come umiliazione e punizione. È un momento di devastazione dei nostri sogni di speranza per il futuro". E avverte: “Questa gente non è cambiata".
Oggi le porte dell'Istituto sono chiuse. C'è un silenzio di morte lì dove prima arrivavano note, suoni, risate. L'abitazione della famiglia di Sarmast è stata "visitata" almeno tre volte dalle milizie di regime, mentre i ragazzi e le ragazze hanno riconsegnato alla scuola violini, violoncelli, flauti, sitar e sarob. Troppo pericolosi tenerli in casa, sarebbe la dimostrazione della "colpa", come nel 1996 quando i Talebani appendevano agli alberi i dischi come un monito, un segno funesto inequivocabile del loro potere mortifero e umiliante. Lo stesso che dilaga di nuovo a Kabul, città spettrale, dove anche gli aerei hanno smesso di volare lasciando per sempre soli coloro che sono rimasti a terra.