Fobie, droghe, disturbi alimentari: convivere a 20 anni con il mal di vivere. Ma non chiamateli "deviati"
Un programma su Rai Play - Scialla Italia - ci racconta dal di dentro la Generazione Zeta. Un dialogo intimo, autentico tra ragazzi e ragazze che troppo spesso gli adulti non ascoltano

Il problema non si risolve con il giudizio secco, definitivo, inappellabile. Anzi, semmai peggiora. A chi parla di "devianze" con la grazia di un panzer forse andrebbe consigliato un libro. Un vecchio libro, che non è né di Freud né di Jung, non è stato scritto da un medico curante ma da una paziente, una donna che per anni ha perso sangue dalla vagina fino quasi a morirne, senza sapere perché. Il romanzo è di Marie Cardinal, si intitola "Le parole per dirlo”, è del 1975, reperibile anche usato per pochi euro. Ma vale la lettura. Ci vogliono i termini giusti da usare quando la paura della vita è più forte di quella della morte, quando ci si ammala d’angoscia, quando il dolore si fa beffe dell'anima, e dilaga, e toglie il fiato, e trasforma il respiro in un singhiozzo, un affanno. Usare i molti paradigmi della sofferenza intima, sfaccettata, talvolta patologica, come controcanto per una nuova gioventù sana, sportiva e magari anche atletica, significa muoversi come molossi in una zona difficile e impalpabile. Vuol dire frantumare una delicatissima torta di meringa e aspettarsi anche l'applauso. Ma non è così la realtà, non è facile, non è un post sui social, non ha l'incarnato della salute da spot. “Volesse il cielo fosse solo luce”, cantava Mia Martini con tutta la disperazione del mondo.
E il mondo, soprattutto quello dei fragili, merita rispetto, non tribunali tranchant un tanto al chilo. Per esempio, il formidabile, ondivago pianeta dei ragazzi e delle ragazze, una terra spesso invisibile per noi adulti puntellata dai loro interrogativi, dalle risposte trovate con fatica, quando arrivano, se arrivano. Generazione Z la chiamano, Z come Zorro, come l'ultima lettera dell'alfabeto. Quelli e quelle che troverete su Rai Play in Scialla Italia. Sono dieci puntate di un programma firmato da Alessandro Sortino e visibile su Internet (qui il link) che tratta argomenti scomodi - la guerra, il lavoro, il futuro - con parole semplici e autentiche. Perché i protagonisti in campo sono loro: i nostri figli, i nostri nipoti, i fratelli e le sorelle minori che provano a capire, si fanno domande, le pongono ai loro coetanei in un rapporto paritario, occhi che si guardano alla stessa altezza. Non ci sono adulti a indicare il cammino, non esistono esperti che regalano soluzioni.

Scialla in romanesco vuol dire mille cose in base alla intonazione: molla, stai tranquillo/a, calmati, ok dai, tutto a posto. Nello specifico è una trasmissione che approfondisce senza infierire, non cerca mostri, né li sbatte in prima pagina. Nella puntata dedicata alle "Dipendenze" la parte del giornalista d'inchiesta è affidata a Gabriele, 18 anni appena, che va in giro tra i suoi simili a chiedere: "Ma tu ti fai? E perché? Come hai iniziato?". Fino a scoprire che l'uso e l'abuso di sostanze non è una questione di "grandi" versus "piccoli", che l'età non conta, che "la droga è illegale ma è dappertutto, e siccome è vietata di fatto sono proibite anche le informazioni sul problema". Non se ne parla a scuola, in famiglia, è la polvere sotto il tappeto, il tabù che resta sospeso. Finché il dramma non esplode, ed è deflagrante. Come nel caso di Giuseppe che fumava cocaina e ora vive in una comunità davanti al mare, che da un anno è "pulito" ma sa che dovrà "tenere a bada la bestia per tutta la vita". Oppure quel ragazzino di Roma che si bucava negli angoli più luridi della Stazione Termini, che ha iniziato con l'oppio per cercare "una pace diabolica" ed è finito dritto nelle mani degli spacciatori di eroina e ora, ora vorrebbe ricominciare a studiare all'università, riprendersi il diritto di immaginare un pezzo di futuro.

Il futuro, già: una sfida gigantesca, favolosa e mostruosa assieme. "Terrorizzante" lo definiscono la maggioranza dei protagonisti della puntata che si intitola semplicemente "Ansia". La conduce Nicky, 20 anni, di Mira, che somiglia a Pippi Calzelunghe e ci racconta la linea della vulnerabilità, quel tracciato invisibile tra sopra e sotto, ché basta un attimo per sprofondare giù nel buio. Nicky che parla con Arianna che soffre di ansia sociale, che a un certo punto della sua giovane esistenza ha smesso di vivere per non soffrire e sussurra: "Ogni giorno è come morire". O la ragazza con la bulimia nervosa che spiega di avere in testa "un mostriciattolo che mi impone di farmi male, perché non valgo nulla". Il dolore "che ci abita" quando non ti senti all'altezza, l'impossibilità "di trovare un posto nel mondo" mentre i social aumentano la dismisura tra il reale e il fittizio, la discrasia tra ciò che sei e quello che i modelli impongono: bellezza, successo e super prestazioni. Verrebbe voglia di prenderli tra le braccia e cullarli questi giovani uomini e donne che fanno i conti con l'abisso armati solo di piccole spade di latta, questo pezzo della Generazione Zeta che si cerca nel labirinto e che qualcuno per comodità elettorale definisce "deviato". Ma dentro il tunnel può risuonare una voce che consola e carezza, d'improvviso ci si abbraccia, irrompe un sorriso bellissimo o una furtiva lacrima così densa, tonda, umana. Quando si trovano "le parole per dirlo" la luce si è già riaccesa, manca poco perché ogni cosa torni a illuminarsi come è giusto che sia, come meritiamo, come meritano i ragazzi e le ragazze con le ferite dell'anima. Non dite una parola che non sia d'amore.