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La vera storia del teschio di Mengele, il criminale nazista che faceva tragici esperimenti sui bambini

In un libro Thomas Keenan ed Eyal Weizman ricostruiscono il modo in cui esperti forensi provarono che dei resti appartenevano al medico del lager di Auschwitz morto in Brasile sotto falso nome. Quella ricerca ha cambiato le indagini sugli omicidi e i crimini di guerra

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

Josef Mengele incarna un picco della malvagità umana: dottore, nazista, ad Auschwitz condusse esperimenti orripilanti sui bambini, con una crudeltà smisurata, il cui vero scopo era esercitare il proprio potere e la propria ferocia, non scientifico e tanto meno medico. Nel lager quel criminale si accaniva sui gemelli. Li univa chirurgicamente. Morivano tra sofferenze atroci. Iniettava veleno nei piccoli. Lo ribattezzarono “Angelo della morte”. Medico che tradì la medicina, purtroppo dopo la Seconda guerra mondiale evitò ogni processo e condanna, scappò, si rifugiò in America latina grazie a un documento falso rilasciato da un Comune dell’Italia settentrionale, nel 1979 morì a 68 anni per un ictus sulla spiaggia Bertioga in Brasile. Aveva un nome fasullo: Wolfgang Gerhard. Nel 1986 esperti forensi identificarono quei resti come le spoglie di Mengele, anticipando la prova definitiva del Dna delle ossa arrivata nel 1992, con una ricerca che ha avuto conseguenze durature per la scienza forense e la ricerca della verità nei crimini di massa.

Indagini forensi dalle conseguenze per le inchieste a venire

Ricostruiscono quella vicenda in un saggio breve e serrato Thomas Keenan, direttore dello Human Rights Project e professore di Letteratura comparata al Bard College, nello Stato di New York, ed Eyal Weizman, fondatore e direttore di Forensic Architecture, professore di Culture visive e dello spazio all’università di Londra, autore di “Architettura forense” (2022). Il libro si intitola “Il teschio di Mengele”: lo pubblica meritoriamente la casa editrice Meltemi (88 pagine con foto, 12 euro, traduzione di Stefano Stoja) che, nella scheda editoriale, ricorda come l’identificazione di quei resti abbia “gradualmente allargato il campo d’azione delle indagini forensi dalla risoluzione di casi di individui singoli all’esame di genocidi e uccisioni in massa”.

Mengele a Buenos Aires sfuggì agli agenti del Mossad 

Keenan e Weizman indicano un passaggio-chiave nella coscienza del pianeta sulla Shoah e quei criminali della peggior specie che sono stati nazisti: il processo ad Eichamann nel 1962 a Gerusalemme con le testimonianze dei sopravvissuti e il saggio di Hannah ArendtLa banalità del male”.  Da allora è impossibile negare in buona fede l’orrore dell’Olocausto, dei lager, di un genocidio pianificato per eliminare dalla faccia della terra ogni singolo ebreo a partire da neonati e bambini. Mengele, sotto falso nome a Buenos Aires, nel 1962 sfuggì per poco al Mossad perché gli agenti avevano catturato in segreto Eichmann ed era troppo importante portarlo in fretta in Israele per indugiare o perdere un solo minuto (su quella vicenda vi suggeriamo un film eccellente, Operazione finale, qui trovate un link alla recensione di mymovies). A ogni buon conto “l’inchiesta su Mengele – scrivono i due studiosi – aprì un nuovo filone nelle indagini di guerra: la nascita non della prova documentale o testimoniale, ma piuttosto di un approccio forense nella comprensione del meccanismo dei crimini di guerra e contro l'umanità”.  

A San Paolo bisognava provare che quelle ossa erano di Mengele 

Andiamo dunque al 6 giugno 1985. Trovata la tomba dove era stato sepolto il nazista a San Paolo, la polizia brasiliana esumò il corpo e mostrò le ossa. Bisognava tuttavia dimostrare che quei resti appartenevano a Mengele. Convennero a San Paolo esperti forensi, periti dentari e radiografici e altri tecnici da mezzo mondo. Perché, sapendole leggere, le ossa raccontano una biografia, in questo caso quella di un uomo che viveva tranquillamente in Sud America grazie a una rete internazionale di protezione. “Ironia della sorte”, annotano Keenan e Weizman, “fu proprio l’indagine su Mengele a contribuire al consolidamento della procedura interdisciplinare di identificazione delle persone scomparse”. Il procedimento fu applicato anche sui resti di migliaia di desaparecidos uccisi da quel regime fascista argentino degli anni ’70 che aveva una speciale sintonia con ideologie come quella nazista.

Confronto fotografico tra foto sicuramente attribuite a Josef Mengele e immagini di “Wolfgang Gerhard” rinvenute presso l’abitazione dei Bossert in Brasile contrassegnate in modo da potervi identificare 24 connotati somatici combacianti. Foto: “Behördengutachten i. S Von 256 StPO, Lichtbildgutachten MENGELE, Josef, geb. 16.03.11 in Günzburg”, Bundeskriminalamt, Wiesbaden (14 giugno 1985); per gentile concessione di Maja Helmer. Dal libro “Il teschio di Mengele” di Thomas Keenan e Eyal Weizman

Il contributo di Helmer, esperto forense tedesco

Lo scoglio da superare era: come provare che quei resti erano di Mengele? Ovvero che era davvero morto e non ancora nascosto da qualche parte? Come far parlare le ossa? Senza trascurare cosa implicano il diritto, le scienze e l’investigazione forense, i due autori ricordano che gli scienziati dovevano fornire “la prova più persuasiva possibile”. Ci riuscirono perché “le tecniche erano maturate appena poco tempo prima”.
Per ironia, veniva proprio dalla Germania (allora occidentale) un esperto che era anche fotografo dilettante, Richard Helmer. Il suo contributo (insieme ad altri) fu decisivo: ricompose il teschio danneggiato e perfezionò un procedimento per creare una sovrimpressione tra foto e ossa già usato a fine ‘800 sui resti di Johann Sebastian Bach. Con passaggi tecnici descritti da Keenan e Weizman e documentati da una serie di foto grazie alle videoriprese Helmer dimostrò che quel teschio era di Mengele perché le misure combaciavano perfettamente. Era lui.

L’inchiesta fece conoscere la categoria degli esperti forensi

“Fu proprio durante l’inchiesta su Mengele che svariate procedure e tecniche di identificazione forense di resti umani furono collaudate sul campo dagli esperti […] per poi renderle disponibili per le inchieste sui crimini di guerra e violazioni dei diritti umano. […] Il caso servì anche a fissare gli standard procedurali”, appuntano i due autori. Con un effetto collaterale mediatico che, se amate serie tv come Csi-Scena del crimine, apprezzerete: l’inchiesta fece conoscere “la categoria degli esperti forensi al grande pubblico”.

Quelle tecniche usate poi in Guatemala, Cile, Ruanda, per il  “Che” 

In quei primi anni ’80 dei giovani antropologi argentini formarono la “prima squadra al mondo di esumatori professionisti di vittime di crimini di guerra, che stava cominciando l’inchiesta sui resti umani dei desaparecidos uccisi dalla junta”, scrivono i due ricercatori. Clyde Snow, membro del gruppo che aveva ricostruito l’identità del teschio di Mengele, andò a Buenos Aires per insegnare le nuove tecniche e rese una deposizione fondamentale in un processo che portò alla condanna di cinque membri della junta militare. Quelle tecniche, appuntano ancora Keenan e Weizman, sono state impiegate in Guatemala, in Cile, in Ruanda, nella ex Jugoslavia, per identificare lo scheletro di Ernesto “Che” Guevara in Colombia.

“Ovunque si accendesse una disputa legale su un determinato crimine di guerra su un determinato crimine di guerra, le sepolture, che fino allora erano state semplicemente luoghi della memoria, divennero risorsa epistemologica […] – scrivono nelle ultime pagine Keenan e Weizman - Oggi le ossa e la carne sia delle vittime sia dei carnefici sono diventati una matrice epistemologica di uso comune”. Mengele, che aveva tradito la scienza medica, contribuì suo malgrado alla ricerca di giustizia.

Per saperne di più sul nazista, clicca qui per il documentario di Rai Educational “Joseph Mengele, Il Medico della morte - La Storia Siamo Noi”

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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