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Arrivi, partenze, baci e addii: la storia del nostro Paese (e anche la nostra privata) attraverso la Memoria delle Stazioni

Una mostra all'Auditorium di Roma con foto bellissime, di ieri e di oggi, e un libro dove otto scrittori ricordano la loro città attraverso un binario e una pensilina

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
Arrivi, partenze, baci e addii: la storia del nostro Paese (e anche la nostra privata) attraverso...
La stazione di Trieste in una immagine di Anna Di Prospero (da "La memoria delle stazioni")

Un bacio, un abbraccio, un saluto, le valigie da tirare su, la folla che va e che viene, il finestro appannato dai respiri, dai sospiri, l'arrivo, la partenza.
Di che materia sono fatte le stazioni e soprattutto hanno memoria questi luoghi/non luoghi che attraversiamo spesso di corsa, spazi fugaci? Ecco, da qui, da queste riflessioni ha inizio un progetto bello e spesso che tra parole e immagini racconta noi, il nostro Paese attraverso snodi che sembrano binari, promesse di viaggio, ritorni a casa. Si intitola "La memoria delle stazioni" la mostra che fino al primo di novembre sarà all'Auditorium di Roma, per poi salire sul vagone e arrivare a Parigi, prima tappa di un percorso lungo e articolato voluto da Chiara Sbarigia, nuova presidente di Cinecittà. Che ha voluto mescolare passato e presente grazie alle 92 fotografie in bianco e nero dell'Archivio Luce e della Fondazione Fs Italiane dove tra anonimi passeggeri si intravedono all'improvviso il Mahatma Gandhi, Alfred Hitchcock su una carrozzella all'esterno di Termini, oppure Orson Welles con in braccio il suo cagnolino fino a Luchino Visconti nella stazione della laguna, pronto a giarare quel capolavoro che resta "Morte a Venezia". Scatti d'epoca intervallati dalle immagini di Anna Di Prospero che ha rivisitato atri, sale da attese e pensiline e restituito loro colore, palpito attuale, presenza contemporanea. Una mostra ma anche un libro, edito da Marsilio Arte (con Archivio Luce) dove le stazione sono narrate da otto scrittori. A ognuno la sua.

E quindi Sandro Veronesi racconta Santa Maria Novella in una data precisa, 16 marzo 1978. Scrive: "Avevo dunque in testa queste parole quando sono sceso dal mio treno sul marciapiede e i miei ricordi di quel luogo hanno trovato il loro inizio: un brusio, un passaparola, un sottofondo elettrico di altre parole vaganti, ripetute, esplicite e terribili: «Moro», «Brigate Rosse», «scorta», «strage»… Nel ricordo quelle parole vibrano su ogni bocca ma anche nel cemento dei pilastri, nel rame e nel vetro dei lucernari, nel ferro delle pensiline e nei marmi della galleria – sono diventate consustanziali alla stazione stessa". Oppure Mauro Covacich che omaggia così lo snodo di Trieste: "Quella stazione, che era stata l’avamposto più meridionale dell’impero austroungarico e poi la testa di ponte fascistissima del Regno d’Italia verso le steppe dei maledetti slavi (...) e ora fungeva da nodo ferroviario di un lembo d’Europa liberato e occupato a macchia di leopardo un po’ da Tito e un po’ dagli americani, era un concentrato della storia del Novecento in cui tutti passavano ignari..." . E ancora Gaia Manzini e la sua stazione e Milano: "Mi muovevo come tutte le persone intorno a me, come mio nonno, Bianciardi, Testori; come gli sconosciuti che andavano e venivano dalla Centrale. Uscivo da una vita e entravo in un’altra che era pur sempre la mia", passando per Enrico Brizzi e Bologna: "... basta uno sguardo all’orologio fermo sulle 10 e 25 perché il nastro del tempo si riavvolga su se stesso. Sono trascorsi più di quarant’anni dal mattino in cui immaginai Babbo intento a risalire la voragine che aveva spezzato l’Italia a metà".

Ci sono ricordi, emozioni, struggimenti per ognuno: la stazione veneziana di Santa Lucia per Tiziano Scarpa ("Viaggiatori, passeggeri in partenza e in arrivo, qual è il rito che officiate di corsa, entrando e uscendo dal tempio ferroviario di Santa Lucia? Che religione professate? Qual è il vostro dio?"), il gigantismo di Termini nelle parole di Gaia Manzini che ripensa a suo padre, la conquista (momentanea) dei binari di Messina dopo il viaggio in nave nel capitolo di Nadia Terranova. E poi c'è Napoli secondo Valeria Parrella: "C’è una cosa che nessun viaggiatore può evitare, sfocare od omettere, che nessun intervento urbanistico può cancellare e che va ben oltre le trasformazioni che centocinquanta anni di storia del treno possono apportare alla stazione di Napoli. E cioè: si vede il Vesuvio. Esso si staglia con decisione nel cielo azzurro: è viola, il Vesuvio è viola di lava rappresa e di tempo, è una montagna viola dal profilo inconfondibile e quando arrivi a Napoli lo vedi come prima cosa, è la porta della stazione, è il semaforo dell’arrivo, per entrare nella stazione di Napoli a un certo punto, a sinistra, compare lui, il Vesuvio sterminatore".


Cambiano i tempi, i modi, ma le stazioni rimangono come moloch nell'immaginario di ciascuno di noi: quell'odore, la leggera ansia, la concentrazione di gente, ognuno con la sua storia, chi va, chi viene, chi coltiva una speranza, chi un desiderio, e ancora i pendolari con le facce stanche, i treni che arrivano dal Sud, quelli dal Nord, incroci, croci, visioni, luci, le voci dagli altoparlanti, un rituale dal quale non possiamo sottrarci, pezzi di Paese uno accanto all'altro. Verranno le capsule supersoniche che ci porteranno su Venere e su Marte, ma le stazioni resteranno per sempre lo specchio profondo di un inconscio collettivo. Le guardiamo, ci rivediamo, ci ritroviamo. Un pensiero plurale che infine - station to station - diventa sguardo privato, dunque unico.

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
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