La maledizione di Hemingway: il destino nero di una dinastia baciata dal talento
I dolori del Premio Nobel della letteratura nato il 21 di luglio. L'attitudine al suicidio: come il padre, i fratelli, il figlio e la nipote

Tutto accadde nel mese di luglio. La nascita a Oak Park (Illinois) il 21 luglio 1899 e la morte a Ketchum (Idaho) il 2 luglio 1961.
In mezzo 62 anni vissuti pericolosamente: 4 mogli, 3 figli, 9 traumi cranici, almeno 7 romanzi consegnati alla Storia e un Premio Nobel per la letteratura.
Il colosso Ernest Hemingway resta ancora oggi, sessant'anni dopo la sua tragica fine, un'icona e un'incognita. Rileggerlo è tuffarsi in un vortice di potenza e malinconia, di violenza e abbandoni, con un senso di sconfitta permanente nonostante il piglio dell'uomo forte: soldato di valore nella Prima Guerra Mondiale, pugile, appassionato di corrida, donne e alcol, attaccabrighe, viaggiatore indefesso. Un uomo irrequieto nonostante una scrittura limpida, essenziale. Le sue opere sono costellate da "gente viva e non personaggi", perché - diceva - "la prosa è architettura e non arredamento". Quindi niente fronzoli ma pulizia assoluta, il basso delle pulsioni mai esplicitato in virtù della cosiddetta "teoria dell'iceberg". Ovvero: si racconta solo quanto è visibile, chiaro e manifesto. Nessuna introspezione, all'apparenza. Pochi aggettivi, dialoghi stellari, un understatement stilistico in cui le emozioni sono sempre sottaciute ma nella realtà esplodono, pagina dopo pagina, come deflagrazioni d'anima.
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Hemingway al cinema
Fernanda Pivano che lo tradusse in italiano lo descrisse come "uno scrittore tragico, schiacciato dalla disperazione per un mondo dilaniato dal conflitto tra la bellezza della realtà naturale e l'inesorabile caducità della condizione umana. Un inimitabile cantore del rapporto tra uomo e donna e della sua disintegrazione in un destino senza via d'uscita".
L'assenza di "vie d'uscita" è il motivo di fondo di tutta l'opera e della vita stessa di Hemingway. I conflitti e le loro nefaste conseguenze narrate in Fiesta, Addio alle armi e Per chi suona la campana, l'impossibiltà del riscatto che pervade Il vecchio e il mare. Un senso di finitezza perpetua da contrastare attraverso battaglie muscolari con tori (Morte nel pomeriggio), o la caccia grossa (Verdi colline d'Africa) o semmai facendo a pugni su di un ring e celebrando l'infedeltà con una certa dose di misoginia (i racconti di Uomini senza donne).
Quando nel 1954 Hemingway viene insignito del Premio Nobel per la Letteratura grazie a Il vecchio e il mare, non è più in grado di viaggiare: è reduce da un incidente aereo gravissimo. A ritirare il premio a Stoccolma sarà l'ambasciatore John Cabot che glielo consegnò giorni dopo ricevendo un unico commento dallo scrittore: «Troppo tardi».
Troppo tardi, appunto. Tanto che alla fine di questa parabola, che è mirabile letteratura purtroppo non in grado di compensare una vita troppo dolorosa, il combattente è battuto da sé stesso.
Hemingway si uccide il 2 luglio del 1961. Infila la canna di un fucile in bocca e preme il grilletto. E' il fucile da caccia che gli ha regalato il padre Clarence, a sua volta suicida con un colpo di pistola nell'America disgregata del 1928, quando la Grande Depressione inizia a spazzare via ogni certezza. C'è un'anima nera, un male oscuro ad accompagnare l'esistenza della famiglia di Hem. A farla finita volontariamente saranno la sorella Ursula, il fratello Leicester e il figlio Gregory diventato Gloria, transessuale, mai accettato dal padre nonostante un documentario ora sostenga che anche lo scrittore dovesse fare i conti con una fluidità mai pubblicamente dichiarata. Infine a togliersi la vita, emulando il nonno nel trentacinquesimo anniversario della sua morte, sarà anche Margaux, la bellissima nipote, top model di successo.
Un destino terribile quello della dinastia Hemingway.
Un destino che è parabola di disperazione nella storia privata di Ernest, sopravvissuto a due guerre, a un disastro aereo, a ettolitri di alcol, a una cura da cavallo con psicofarmaci, piegato dall'elettrochoc, incapace oramai di scrivere, forse affetto da un'encefalopatia cronica come ha scritto nel 2017 lo psichiatra Andrew Farah nel saggio "Hemingway's Brain". L'uomo che ha capovolto la letteratura del Novecento, il cacciatore di tigri e Marlin, non è mai stato in grado di uccidere i suoi demoni. Alla fine, vinto, ha usato un'arma contro di sé, L'ultimo peccato che ci resta in dote, il solo vero oltraggio che un genio può consegnare ai posteri: lasciarli orfani per sempre.