Francesca Mannocchi: “Faccio la reporter per raccontare le vite degli altri. E in guerra la paura è un’alleata”
Intervista alla giornalista e scrittrice che partecipa al Festivaletteratura di Mantova “Nei reportage racconto la storia delle persone, voglio essere una donna-orecchio. Dall’Ucraina ricordo Yuri: un amico ucciso”
Siamo diventati meno empatici e sensibili verso le vite degli altri. “I profughi sono tra noi ma non li vediamo. Perché le politiche dell’Europa spaventata negano il diritto allo spostamento. Ma l’essere umano è nomade, non stanziale”. Sono constatazioni di Francesca Mannocchi, giornalista e scrittrice, nata a Roma nel 1981, in questa intervista organizzata per la sua partecipazione al Festivaletteratura di Mantova venerdì 8 alle 16.30 alla Casa del Mantegna, nell’appuntamento pubblico e indirizzato anche ai ragazzi “La guerra tra le case” con Simonetta Bitasi.
Nella manifestazione mantovana con oltre 300 autrici e autori intitolata “Trovare le parole” il titolo dell’incontro con Francesca Mannocchi non è certo casuale. Autrice free lance di reportage in Siria, Iraq, Afghanistan, in luoghi dove i migranti verso l’Europa cercano vie di sopravvivenza e d’uscita, dove vengono tenuti prigionieri senza aver commesso alcun crimine come in Libia (e non solo lì), dall’anno scorso la giornalista è inviata per La7 nell’Ucraina invasa dalla Russia. Da questa esperienza ripensa a Yuri, un falegname arruolatosi volontario, diventato suo amico, rimasto ucciso.
Oltre che nei tg, magari avrete visto suoi servizi nel programma Propaganda Live. O avrete letto suoi articoli su La Stampa. In ogni caso, i servizi di Francesca Mannocchi rifuggono da toni enfatici e sensazionalistici, per ritrarre da vicino la vita delle persone coinvolte, per comprendere cosa succede.
Un chiarimento per chi legge: nell’intervista adottiamo il “tu” perché tra giornalisti è usanza darsi del tu.
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Francesca, nei tuoi reportage scritti e video colpisce, in modo favorevole, la loro umanità. Come racconti le persone?
Il racconto delle storie e biografie nasce da una formazione che ho cercato di farmi sui testi soprattutto della scrittrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič (Nobel per la letteratura del 2015, ndr). Li ho ripresi in mano lungamente in questi ultimi anni di guerra. Si tratta di diventare tramite di narrazione, una sorta di “donna orecchio”: fare delle storie degli altri la parte per il tutto, per la comprensione degli eventi. Partire dalle storie, dalle biografie che sembrano ordinarie o meno esposte di altri, dalle vite dei civili, è in realtà il modo più utile per lasciare ai lettori il modo di comprendere gli eventi.
Un elemento emerge dai tuoi reportage: le guerre, e di conseguenza i profughi, sono in mezzo a noi anche quando fingiamo che siano lontane. Pensiamo all’Ucraina o, per esempio, anche all’Afghanistan.
Negli ultimi anni abbiamo assistito, direi dal 2017, dall’anno della firma dell’accordo italo-libico, a un progressivo spostamento della capacità di rendersi empatici e sensibili alle vite degli altri. Questo perché abbiamo avuto con forza (quando uso il plurale penso all’Europa, al nostro continente), la tendenza a spostare lo sguardo, a cercare di non vedere, a esternalizzare non solo i confini ma anche le vite delle persone che cercavano di attraversarli. Dunque sì, i profughi sono tra noi ma non li vediamo. E sono sempre meno tra noi perché negli ultimi anni l’Europa come continente spaventato ha messo in atto politiche di negazione al diritto al movimento, allo spostamento.
Eppure spostarsi sarebbe nella storia di noi esseri umani.
Sarebbe. L’essere umano nasce nomade, non stanziale. È come se, negli ultimi anni, per un malinteso senso di protezione da un pericolo che non esiste nei numeri, di fronte alle vite nomadi che cercano salvezza, noi avessimo creato delle vite antagoniste alle nostre, quando questo è contrario proprio alla natura dell’uomo. L’uomo nasce in spostamento. Le politiche che ha attuato e sta attuando l’Europa sono figlie di uno spavento mal gestito, di una incapacità di gestire un fenomeno destinato ad accompagnarci nei prossimi anni in maniera sempre più marcata: gli spostamenti determinati dalle guerre e dai conflitti si stanno unendo a quelli determinati dalla crisi climatica e sempre più spesso si incrociano. Quindi la sfida per il futuro non deve essere allontanare lo sguardo da queste vite ed esternalizzare il controllo dei confini ma cercare di capire come garantire nel medio e lungo periodo il rispetto e il diritto delle persone a spostarsi.
Una volta durante un servizio in Ucraina avevi elmetto e giubbotto antiproiettile e qualcuno disse che poteva arrivare un missile da un momento all’altro. Come gestire la paura, se la si prova?
Si gestisce non negandola. La paura è la nostra principale alleata, è la paura che ti garantisce la saggezza di sapere dove dobbiamo fermarci, che il nostro lavoro è di testimonianza, non di eroismo, che le storie che raccontiamo non siamo noi ma le vite degli altri. In questo senso dobbiamo sempre prendere la paura per mano e perdere un’immagine piuttosto che accanirsi nell’averla per forza esponendoci a un pericolo eccessivo. Credo che chi sostiene di non avere paura non l’ha mai davvero provata o mente perché in situazioni di conflitto la paura è uno strumento con cui raccontare le cose.
Tra le tante persone incontrate, dovendo scegliere un ritratto che ritieni significativo e ti è rimasto dentro chi indicheresti?
Un incontro recente con un soldato in Ucraina che si chiamava Yuri. L’ho incontrato nelle ultime fasi della battaglia di Bakhmut e ho scoperto solo dopo un paio di giorni che non era soldato di professione ma era un falegname, un volontario per combattere. C’è stata una specie di luccicanza amicale immediata. Avevamo figli coetanei. Ho continuato a cercarlo a lungo con messaggi brevi per sapere se fosse vivo, a un certo punto ha smesso di rispondere. Ho immaginato che fosse stato spostato su un altro fronte, ho saputo poi che era morto. Quella morte mi ha colpito più di altre di persone che ho conosciuto perché mi ha reso plastica la sensazione che il nostro lavoro è fatto anche di incontri con persone con cui ti congedi, ti saluti dicendo a una prossima volta che spesso non c’è mai.
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Per muoversi in scenari di guerra sono fondamentali i rapporti di fiducia con autista, interprete o chi fa da guida. È così?
È assolutamente così. Le persone con cui si lavora in scenari di conflitto e di crisi sono più che nostri collaboratori, sono le persone che sanno aiutarci leggere gli eventi, a lavorare in sicurezza, a farci da tramite con una cultura oltre che con uno spazio fisico. Sono persone con le quali viviamo 24 ore su 24 situazioni di serenità, talvolta di spensieratezza, ma anche emozioni estreme. Sono legami che, quando si è fortunati, diventano amicizie radicate senza le quali non faremmo un passo.
Cosa ti preme di più far comprendere con il tuo lavoro?
Vorrei che ognuno di noi si chiedesse “cosa farei io se fossi al posto di queste persone”? Vorrei che scattasse un meccanismo di immedesimazione che dovremmo avere sempre verso l’altro, il più vicino come il più lontano, e porsi quell’interrogativo. Vorrei che non fosse un sentimento di compassione, che pure serve, ma di immedesimazione: come mi comporterei se fossi al posto di questo padre, di questa madre, di questa donna, di questa orfana?