Dalida, l'artista che cantò in pubblico la sua morte e riuscì a prevedere quanto sarebbe accaduto nel 2023
La breve, intensissima parabola di una diva segnata da una stella nera. Il suo produttore: "Con Tenco fu vero amore. Dovevano sposarsi dopo quel maledetto Sanremo del 1967"
Era il 1969 quando Dalida incise un pezzo del duo americano Zager & Evans: all'epoca il mondo era con il fiato sospeso per la missione spaziale che portò Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins sulla luna. Il futuro sembrava a un passo, rivoluzionario, imperscrutabile, forse spaventoso. Il brano, ritornato oggi prepotentemente in auge, si intitola "Nel 2023" e recita: "Nel 2023 non vedrò più con gli occhi miei. Ci saranno delle immagini che un altro mondo mi darà. (...) Io non ci sarò più ma tu mi cercherai nell'infinito"
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Dalida, la Callas formato juke-box
Se fosse ancora qui, su questa terra, Iolanda Cristina Gigliotti, nome d'arte Dalida, avrebbe 90 anni. Nata nel 1933 a Il Cairo, in Egitto, da una famiglia di emigrati calabresi. Una carriera fulminante, una parabola esistenziale breve, intensissima e disgraziata, terminata con la scelta di porre fine ai suoi giorni nell'elegante casa di Parigi - 11 bis di rue d’Orchampt - che si affacciava sulla Basilica del Sacro Cuore. Era il 3 maggio del 1987, aveva 54 anni. Lasciò poche parole su un biglietto: "Perdonatemi, ma la vita mi è diventata insopportabile".
Non era solo bellissima, fascinosa, glamour, sofisticata. Aveva anche un grande talento che prima la portò al cinema, poi alla canzone. Alla fine degli anni Cinquanta era già una star, soprattutto in Francia, la sua seconda patria. Una voce intensa - la voce dell'anima come in molti la definirono - capace di attraversare il pentagramma, volteggiare tra ironia e potenza, drammaticità e leggerezza. Perché Dalida poteva reinterpretare con verve sbarazzina Aurelio Fierro o Modugno, ma anche dare spessore alle composizioni di Kurt Weill, Nino Rota, Mikīs Theodōrakīs, o restituire fiato a Edith Piaf. La Callas del jukebox, la chiamavano. Una regina della scena internazionale e da alta classifica. Due Oscar mondiali della canzone (1963, 1964), un disco di platino (1964), oltre 170 milioni di copie vendute in tutto il mondo. E poi il resto: gambe lunghissime, un leggero strabismo, vitino da vespa, generoso décolleté e una nuvola di capelli biondo/rossi tanto da farla sembrare una diva hollywoodiana quando venne catapultata nel provincialissimo Belpaese. Tanta gloria in pubblico, troppi dolori nel privato, e una vita sentimentale complicata, inquieta. Amori fulminanti, separazioni burrascose, tragedie.
Il primo marito, nel 1961, è Lucien Morisse, il suo pigmalione, morto suicida nel 1970. Un uomo brillante e amorevole che lei lascia dopo un mese dal matrimonio per il pittore/attore Jean Sobieski. Dopo Sobieski altra relazione con Christian de la Mazière, giornalista e impresario, ex di Juliette Gréco, poi il breve colpo di fulmine con Alain Delon con cui Dalida duetta in "Paroles Paroles", e quindi nell'estate del 1966 l'incontro con Luigi Tenco negli studi della casa discografica Rca grazie al manager/produttore/compositore Paolo Dossena che la lancia in Italia. Qui inizia la frequentazione tra i due, decidono di portare a Sanremo un brano insieme. Ricorda Dossena: "Dalida veniva dal pop ma era una donna curiosa e intelligente. Quando connobbe Luigi e la sua musica, capì che era arrivato il momento di affrontare la canzone d'arte. Finalmente, dopo molti travagli, nacque Ciao amore ciao da presentare all'Ariston nel gennaio del 1967". Ma il rapporto Dalida-Tenco fu un'operazione di marketing o una vera passione? Dossena sorride: "Era una bella storia d'amore. Due giorni prima dell'esibizione Dalida mi convocò nella sua suite all'Hotel Savoy a Sanremo, c'era anche Luigi. Stappò una bottiglia di champagne, era felice, disse che si sarebbero sposati ad aprile a Parigi. Facemmo festa quel giorno. E io ero veramente contento per lei, una delle artiste con cui ho lavorato che mi ha toccato di più, una persona così profonda, sensibile, umana. Aveva davvero qualcosa di speciale". Quel maledetto Sanremo. Fu Dalida ad entrare nella camera 219 di Tenco dopo le urla di Lucio Dalla che aveva trovato il corpo dell'amico/collega senza vita. Ritornò a Parigi sotto choc, prese una stanza all'Hotel Prince de Galles, cercò di uccidersi con una dose massiccia di barbiturci. Fu salvata in extremis da una cameriera. Ma da quel momento tutto cambiò, vennero altre storie più o meno infelici, come quella lunga 9 anni con Richard Chanfray, anche lui morto suicida nell'83.
Vennero altri successi, altri concerti trionfali all'Olympia, altri tour sold out ma soprattutto Dalida cominciò suo malgrado a fare i conti con un male oscuro, profondo, famelico. C'è una canzone meno conosciuta del suo repertorio. Si intitola Mourir sur scène (Morire in scena). «Moi, qui ai tout choisi dans ma vie/ Je veux choisir ma mort aussi» (Io che ho scelto tutto nella mia vita/voglio scegliere anche come morire). Sceglierà di dire addio a tutto e a tutti in una notte di 36 anni fa. Ci resta la sua musica, certo, e poi film, libri, serie tv, spettacoli teatrali, mostre con i suoi magnifici vestiti. A Serrastretta, in Calabria, il paese della famiglia Gigliotti, è stato aperto un museo in suo onore. A Parigi c'è una piazza per lei e il suo monumento funebre nel cimitero di Montmartre è meta di un interrotto pellegrinaggio. Ma rimane il rimpianto per un'artista nata sotto una stella metà d'oro e metà nera. Tanto successo, tanta sfortuna. Come se il cielo con lei, con Dalida, abbia fatto fatica a sopportare l'incanto di una donna che ha "attraversato la vita senza guardarla"