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La maledizione di Chet Baker: jazz, amori ed eroina dietro una morte misteriosa

Un film - Jazz Noir - ripercorre gli ultimi giorni del grandissimo trombettista. Fu suicidio, incidente oppure omicidio?

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
La maledizione di Chet Baker: jazz, amori ed eroina dietro una morte misteriosa

Le parole che lo descrivono meglio le ha scritte Geoff Dyer in un libro indispensabile per chiunque ami il jazz. Si intitola Natura morta con custodia di sax. "Lui non suonava la tromba, la beveva. Anzi la sorseggiava". E' così. In questa opera preziosa e unica, Chet Baker è tra i pochi bianchi a sedere nell'olimpo degli indimenticabili. Tutti neri, tutti l'Africa nel sangue e lo swing a far marciare il cuore. E invece Chet era cool, aveva la voce melodiosa di una ragazza innamorata, le fattezze di un angelo in croce o, più il là negli anni, di una specie di cowboy improbabile e malinconico armato solo di una tromba.

Era nato a ridosso del Natale del 1929 in Oklahoma. Morì in Olanda il 13 maggio del 1988. Morì volando da una finestra del Prins Hendrik Hotel, nel quartiere a luci rosse di Amsterdam. Si tolse la vita? Cadde strafatto di eroina? O fu qualcuno a spingerlo? Non è la prima volta che la parabola di Chet diventa film. A ridosso della scomparsa uscì Let's Get Lost, l'omaggio di Bruce Weber,  fotografo e regista, il re del bianco e nero patinato.
Ora il punto di vista è diverso: non una celebrazione iconica ma un'indagine. Il regista olandese Rolf van Eijk, alla sua prima prova col lungometraggio, firma un film che si intitola "Jazz Noir" nelle sale fino al 24 novembre distribuito da Wanted Cinema.  Una crime story oscura che si dipana tra angoli neri, maleodoranti, e bassifondi minacciosi. In questo scenario gotico il detective Lucas tenta di ricostruire la parabola finale di Chet attraverso le testimonianze di chi lo frequentò negli ultimi giorni: l'amante Sarah, l'amico Simon, e lo strano fan Doctor Feelgood. Li ascolta ma soprattutto ascolta la musica di Baker. Sente e risente pezzi come "If I Should Lose You", "I Keep You Close to Me" e poi "Imagination" ed "Every Time We Say Goodbye". Lucas, interpretato da Steve Wall, che oltre ad essere attore è anche un musicista, cerca di decifrare i tormenti di Chet. Per scoprire che i demoni dell'artista sono molto simili ai suoi: medesimi i labirinti dell'anima, lo stesso spleen felpato e maledetto, quel desiderio di distruggersi e fare pace con ciò che rimane intatto di sé. Perché come dice l'incipit della pellicola: "il blues scorre attraverso tutti noi [...]. Finché la gente avrà problemi, il blues non morirà".
Baker, sia detto, era ben oltre il blues. Basterebbe riascoltare l'assolo del tema di My funny Valentine con il quartetto di Gerry Mulligan per definirne la grandezza. Aveva solo 23 anni, all'epoca, ed era già un gigante. Da Miles Davis aveva mutuato il gusto per le frasi lunghe ma sempre in equilibrio tra improvvisazione e melodia: un fraseggio agile, imprevedibile, tenero e pastoso. Ecco: Chet Baker era insieme carezzevole e profondo, rarefatto e appassionato. Enrico Rava lo ricorda così: "Era autodidatta, non aveva studiato, non conosceva niente ma sapeva tutto. Aveva nelle dita, nel cuore, nel cervello e nella pancia tutta la storia del jazz". E Paolo Fresu che come lui usa anche il flicorno e la sordina aggiunge: "Chet suonava come cantava e cantava come suonava. Era un tutt’uno. Dove non arrivava il suono, c'era la voce. E il contrario. Un miracolo". Una spirale di note, di poesia, di bellezza. E di dolore. Il ragazzo con la faccia d'angelo che rese grande il jazz californiano era un tossico, sempre a caccia di dosi, perennemente nei guai. Amatissimo dalle donne, protetto da moltitudini di ragazze pronte a curargli un livido di troppo, una ferita in più, ma incapace di fermarsi in un letto, una casa. C'è questa sua biografia postuma - Come se avessi le ali (pubblicata in Italia da minimum fax) - che è la memoria tragica di una fine annunciata; un mix tra velluto, frammenti di vetro, una stuoia rossa puntellata di note che porta dentro un incubo.
A un certo punto tra le botte dei pusher e la dipendenza da eroina perse i denti. Gli amici del jazz, le fidanzate, fecero una colletta: gli regalarono una dentiera. Imparò a esprimersi anche con quella, sputando schiuma e dolore. "Il suo modo di suonare era intimo: come se avesse sempre qualcuno davanti a sé, qualcuno che si concentra su quello che dici, e attende pazientemente il suo turno per parlare", scrive Dyer. Ritratto perfetto con custodia di tromba.
A Roma era di casa in un club che non esiste più: si chiamava Music Inn. A volte capitava di incontrarlo sul Lungotevere, indossava certi maglioni di lana grossa, bianchi. Aspettando l'autobus notturno, Chet, quando ne aveva voglia, si metteva a suonare Almost Blue in quel silenzio denso, ed era un miracolo. Era poesia e uno struggimento che si fa fatica a dire. Un tremito, una magia. Quasi triste. Quasi tristi noi, incapaci di dire addio a un cowboy disarmato. Solo chi ha talento può sprecarlo. E farsi rimpiangere per sempre.

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
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