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Cecilia Mangini, la ribelle del documentario che raccontò le donne, gli operai e il genio di Deledda

La Festa del Cinema di Roma rende omaggio alla prima documentarista d'Italia. Censurata, boicottata e riscoperta solo alla fine

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
Cecilia Mangini, la ribelle del documentario che raccontò le donne, gli operai e il genio di Deledda

Poche come lei hanno raccontato la condizione femminile, senza sconti. Essere donne, il suo documentario del 1964, andrebbe rivisto mille volte, ancora oggi. Perché non molto è cambiato da allora: sfruttate eravamo - in casa, a lavoro - e sfruttate restiamo. Tanto che ancora si muore in fabbrica, a 22 anni, la vita davanti interrotta di colpo come è accaduto a Luana D'Orazio, operaia tessile.
Per questo Cecilia Mangini andrebbe studiata anche a scuola in un Paese che l'ha messa ai margini e riabilitata solo in tarda età, fino a dedicarle con postumo tempismo la sezione doc del David Di Donatello
Cecilia era una forza della natura, una narratrice instancabile. Ero lo sguardo attento, politico, sui diseredati: i contadini, gli operai, la sostanza della fatica dietro il luccichio del boom e del capitalismo. Era rock, perché ribelle, ma pure di mano fermissima e testa lucida quando trattava con taglio politico il legame con le radici, il peso e il valore della terra - la sua Puglia - e anche la Sardegna più rurale alla quale era legata come con un simbolico cordone ombelicale. Mangini ci ha lasciato a 93 anni a gennaio scorso. Ma è più presente che mai. La Casa del Cinema di Roma che riapre le dedica un bellissimo omaggio, tre giorni interi, fino al 20 maggio. Si intitola: Cecilia la rivoluzionaria. Saranno riproposte molte delle sue opere, si discuterà del suo ruolo. E parliamo davvero di una delle più grandi intellettuali d'Italia eppure misconosciuta al grande pubblico: troppo scomoda questa piccola donna. Verrà tra l'altro presentato un lungo frammento del suo ultimo progetto, l'omaggio a Grazia Deledda, che sarà proiettato integralmente a Nuoro tra il 25 e il 30 maggio in occasione dei 150 anni della nascita della scrittrice Premio Nobel.

Cecilia se n'è andata il 21 gennaio, un giorno simbolico: il secolo tondo del Partito Comunista Italiano e il compleannno di Antonio Gramsci al quale nel 1977 dedicò un omaggio secco come una denuncia, raccontandone i giorni del carcere e per il quale vinse con Lino Del Fra il Pardo d'Oro a Locarno. Cecilia Mangini per 93 anni ha filmato, fotografato e raccontato la realtà degli ultimi, dei dimenticati, delle donne. Intellettuale disorganica, anarchica, in fondo incompresa anche da quel Pci che attraverso l'Unità accolse con tiepido distacco l'opera dedicata al compagno di Ales.
Una vivacissima e formidabile testimone, indomita militante, imprevedibile e pioneristica. Prima documentarista d'Italia. Insieme con Lino Miccicché e il marito Lino Del Fra, nel 1962, realizzarono All'armi siam fascisti!, film che scavava nelle radici del ventennio disgraziato e tragico documentando le connivenze tra Chiesa e regime e quel cuore nero che in Italia continua a battere tra rigagnoli xenofobi, aggressivi, autoritari. Un'opera censurata eppure fondamentale per capire il profilo del nostro Paese, le sue capriole, la fatica della democrazia. Era nata in Salento, Cecilia, il 31 luglio del 1927. E alla Puglia dedicò tra l'altro "Stendalì - Suonano ancora" (1960) sulla tradizione dei lamenti funebri nella Grecìa salentina, "Tommaso" e "Brindisi '65".

Scelse di lavorare con Pasolini sull'onda di "Ignoti nella città", ispirato a "Ragazzi di vita". "Cercai il suo numero sull'elenco telefonico e lo chiamai", raccontava Cecilia. Da quel sodalizio nacque "La canta delle marane", una fotografia crudissima del sottoproletariato romano, tra Ponte Mammolo e una città che si allargava a macchia d'olio, tentacolare e indecifrabile. E poi le musiche di Egisto Macchi, la relazione professionale con un altro personaggio cruciale e così scomodo come Pratolini, la passione inesauribile nel testimoniare. Diceva Cecilia in un articolo a firma di Nicola Bellantuomo: "Chi fa documentari è assai più libero del regista di film di finzione, ed è per questo, per la mia indole libertaria con cui convivo fin da bambina, che ho voluto essere una documentarista. Il documentario è il modo più libero di fare cinema e non solo dal punto di vista produttivo perché resta un genere povero: mantiene una permeabilità alle sorprese della realtà che la finzione non si può permettere proprio perché vincolata al denaro. Il documentario è la placenta del cinema vero, la riserva del talento, dell'immaginazione, della fantasia, della tecnica: di tutto quello che fa il cinema".

E poi le infinite censure, la bolla di amnesia in cui venne avvolta negli anni 80 fino al ritorno negli anni Duemila con un documentario a lei dedicato di Davide Barletti e Lorenzo Conte che nel 2010 le dedicarono "Non c'era nessuna signora a quel tavolo". La quinta giovinezza di Mangini fu proprio in questo complicato Terzo Millennio con la pronipote Mariangela Barbanente, con cui firmarono in co-regia "In viaggio con Cecilia", fondamentale per capire lo sguardo curioso, attento, trasversale e mai dogmatico della signora del documentario.
Mangini è stata anche una delle protagoniste di "Lievito Madre" di Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria dove si mette a nudo e si racconta come donna, oltre che da grande esponente della cultura: con loro, con le ragazze, l'ultimo passaggio finalmente da protagonista sul tappeto rosso della Mostra del Cinema di Venezia. Il sodalizio finale, affettuoso e inteso, è stato con Paolo Pisanelli, grazie al ritrovamento in una scatola di scarpe, dentro un armadio, dei negativi di decine e decine di fotografie bellissime, bianchi e neri caravaggeschi, che raccontano senza sconti la guerra in Vietnam documentata con Lino nella metà dei Sessanta, diventato film appena un anno fa: "Due scatole dimenticate - Viaggio in Vietnam". Insieme, Cecilia e Paolo, hanno celebrato a loro modo la storia di Grazia Deledda, l'ultimo omaggio per chiudere una carriera che è un lascito di memoria, di impegno e di orgoglio. Una lezione indimenticabile.

 

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
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