Una scacchiera per cambiare la sorte: la partita estrema di Bobby Fischer, il Re pazzo che si è fatto scacco da solo
Il libro di Alessandro Barbaglia - "La mossa del matto" - mette insieme la finale tra Fischer e Spasskij del '72, la Guerra Fredda, i miti omerici e un rimpianto privato
Alessandro Barbaglia ha 5 o 6 anni quando sente per la prima volta pronunciare il nome di Bobby Fischer, un nome "effervescente". Sta giocando sotto un tavolo in un giardino, vede solo gambe, ginocchia e piedi di gente adulta. Sono gli amici del padre, psicologo, sono uomini e donne che si occupano delle crepe della mente, sono terapeuti che provano a curare la pazzia e in parte ne sono contaminati/affascinati. Bobby Fischer è uno scacchista, forse è lo scacchista per antonomasia, ed è completamente pazzo. Inizia così il libro di Barbaglia, scrittore-libraio-poeta, che mette sulla scacchiera una partita memorabile, due giganti che gareggiano, due Nazioni che si fronteggiano in piena Guerra Fredda, la sua infanzia, il mito, la perdita e l'Iliade.
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Scacchi, la passione magnetica
L'autore usa ogni pezzo a disposizione per ricomporre non solo la vita di Fischer, l'americano che nel 1972 in Islanda batterà il campione del mondo in carica, il russo Boris Spasskij, ma per ridefinire la propria esistenza, quel luogo magico che era l'infanzia, il rapporto con il papà scomparso a soli 42 anni, quando lui era un bambino. E ha una capacità rara questo giovane autore, che ha scritto molto per l'infanzia. La capacità di raccontare storie parallele, complesse, con la semplicità e la pura bellezza con cui si narra una fiaba. Solo che questa non è una favola, e in queste pagine ci sono dolori, e ci sono assenze, e ci sono traiettorie imprevedibili tra 64 quadrati bianchi e neri. Quadrati che si chiamano case, che meravigliosa e terribile metafora. Il libro - La mossa del matto (Mondadori, pagg. 187, euro 19) - è appassionante come un viaggio, un'avventura nell'anima. Il titolo più esaustivo è però quello dell'edizione francese: Le Coup de Fou - Bobby Fischer, l'Iliade et mon père che ha incantato lo stesso Daniel Pennac, fan scatenato di questo romanzo. Barbaglia ha i capelli come Spasskij ma fa il tifo per Fischer: il bimbo che gioca da solo a nascondino, che imparaa a muovere re, torri e alfieri leggendo le istruzioni della più brutta scacchiera del mondo, il misantropo che vive rintanato, il misogino che non ama la Dama, beve latte di pessima qualità e ascolta quattro radio in contemporanea. Fischer che è Achille, selvaggio e fiero, con un'unica missione nella vita: vincere quella finale del 1972, contro il viveur, il galantuomo, lo stratega Boris, un Ulisse moderno che come Bobby non ha famiglia ma fa i conti con una madre Russia che pretende il meglio, il massimo.
Fischer invece se ne frega di farsi portabandiera dello Stato dell'Unione. E' a Reykjavik nel luglio del 1972 solo per sé stesso, per celebrare la propria privata "ira funesta": arriva in ritardo, fa mille bizze, pretende di giocare nello stanzino delle scope lontano dalle telecamere, fa impazzire l'arbitro, le delegazioni, perfino Henry Kissinger, l'allora segretario di Stato americano.
Un talento purissimo devastato da milioni di demoni, un uomo affascinante, altissimo, quasi due metri, con "dita grandi come i cannelloni che faceva mia nonna", annota Barbaglia. Dall'altra parte il magnifico Ulisse Spasskij divenuto "campione partendo dalla polvere di Leningrado sotto l’assedio nazista" che commentò la finale del campionato del mondo con queste parole: "Il problema di giocare contro Bobby non è vincere o perdere, il vero problema è sopravvivere". Sembra una favola epica ma dentro c'è tutta la violenza di un gioco che non è un semplice gioco, non è esattamente una disciplina sportiva, ma può essere arte, religione, ossessione e delirio. Sono un archetipo gli scacchi: una battaglia tra bene e male, bianco e nero, eserciti schierati tra Ying e Yang, buio e luce.
Scrive Barbaglia: "Nessuno si mette alla scacchiera se non ha paura. Ci si siede lì per quello: per paura. E per provare a trovare un posto all'angoscia come si trova il posto migliore per difendere il proprio Re". Quella partita finirà con la vittoria di Fischer il 2 settembre 1972 ma Boris difenderà il re avversario vent'anni dopo, 1992. Entrambi si ritrovano assieme in Jugoslavia e Bobby - pur di guerreggiare ancora - viola l'embargo americano nei confronti del Paese dell'Est. Contro di lui viene emesso un mandato di cattura. Allora Spasskij scrive al Presidente americano, Bush padre. Gli chiede di intercedere, dice: se proprio dovete sbatterlo in carcere voglio andarci anche io, dateci una schacchiera e chiudete la cella. Usa parole bellissime Boris: "Bobby ha una personalità tormentata, me ne accorsi subito: è onesto e altruista, ma assolutamente asociale. Non si adegua al modo di vita di tutti, ha un elevatissimo senso della giustizia e non è disposto a compromessi né con sé stesso né con il prossimo. E' una persona che agisce quasi sempre a proprio svantaggio".
Nel 1992 se ne va anche il papà di Alessandro Barbaglia mentre Robert James Fischer, detto Bobby morirà in Islanda (proprio lì, dove aveva vinto) il 17 gennaio 2008, a 65 anni, per un'insufficienza renale che si rifiuta di curare. Le ultimie immagini lo ritraggono vecchio, stanco, una specie di clochard con la barba lunga. Ulisse Spasskij ha oggi 86 anni, abita in Francia, è sopravvissuto a due infarti e ogni tanto si allena facendo danzare da solo tutti i 32 pezzi tra 64 case.
Fate la mossa giusta: leggete questo libro bello e intenso che tra rimandi, citazioni, slalom tra affetti, memorie pubbliche e private, racconta le partite della vita. Quelle che ci rendono adulti, nostro malgrado.