Astor Piazzolla, quando Borges ascoltandolo sbraitò: "Questo non è tango"
A cento anni dalla nascita, Ferrara e L'Aquila celebrano il genio argentino che e rivoluzionò il "pensiero triste che si balla"

“Forse la missione del tango è proprio questa: dare agli argentini la certezza di essere stati valorosi, di avere adempiuto ai loro obblighi di coraggio e di onore”. Così scriveva nel 1939 Jorge Luis Borges in "Evaristo Carriego", omaggio al sortilegio di un suono, di uno spirito, celebrazione di un "pensiero triste che si balla". Lo scrittore di Buenos Aires aveva, allora, 32 anni. Astor Piazzolla solo 9. Si incontreranno molto tempo dopo, riusciranno perfino a incidere un disco insieme nel 1963 nonostante le impetuose intemperanze di ciascuno dei due. Due Titani. La leggenda narra che la prima volta che Borges ascoltò Piazzolla in concerto uscì dalla sala sbraitando: "Questo non è tango". E aveva ragione. Non era, non è tango. E' il nuovo tango. E' quello pensato, ideato, suonato da Astor Piazzolla, un'altra storia, un'altra cosa. Perché Piazzolla rivoluzionò l'unico sentimento inamovibile per gli argentini, l'unico grande convincimento, il paradigma divino: il tango, per l'appunto.
Non fu semplice sparigliare le carte per quel ragazzo dal temperamento focoso, figlio di una coppia di origini italiane, nato l'11 marzo del 1921 a Mar del Plata lungo la costa atlantica dell'Argentina. Si trattava di scardinare le tradizioni, il culto, il folklore, perfino il mito. Eppure ci riuscì suonando il bandoneon, mescolando il mescolabile, sommando alle partiture tocchi di jazz, frammenti di musica classica, cancellando il cantato. Cavalcate ritmiche che tolgono il fiato, spericolati virtuosismi con l'aggiunta di flauto, sassofono, organo Hammond, chitarre elettriche, batteria, strumenti elettronici.
Un tradimento per i puristi. Lo chiamarono "l'assassino del tango" ma lui, Astor, non si diede mai per vinto. E alla fine ebbe ragione. Cento anni dopo Piazzolla sopravvive al suo stesso mito, siede nell'Olimpo dei grandi, lui che aveva vergogna a suonare quello strumento "povero", un mantice. Lui che doveva diventare un ragioniere ma mollò gli studi per depressione e crebbe a New York negli anni in cui impazzavano Duke Ellington, Benny Goodman e Cab Calloway. Lui che a 11 anni già componeva, salito su un palco quasi per errore tra lo stupore e l'incredulità di maestri di musica tanto grande, adulto era il suo talento.
Quel piccolo argentino che incantava, sfuggiva ad ogni classificazione, che incrociava Stravinsky e Arthur Rubinstein, frequentava Carlos Gardel e suonò con il portentoso sassofonista Gerry Mulligan. Quando nel luglio del 1955 muore Evita Peron, Piazzolla è pronto per la sua rivoluzione. Dirà scatenando polemiche e sconcerto: "Il tango non esiste più. Esisteva molti anni fa, quando Buenos Aires era una città dove si vestiva il tango, si camminava nel tango, si respirava nell'aria un profumo di tango. Il tango di oggi è solo un'imitazione noiosa e nostalgica di quel tempo". Per questo assassinò la musica dei padri e delle madri.
La gente lo definiva il "gatto" tanto era veloce, sinuoso, imprendibile il suono che produceva, come la voce di un funambolo su una corda tesa tra il passato e il futuro, l'Argentina dei peggior barrios e i jazz club fumosi della Grande Mela. Confessò in un'intervista: "Coltivo un’illusione: che la mia opera si ascolterà ancora nel 2020 come nel 3000”. Così è. Così sarà perché il "nuovo tango" di Piazzolla è una cattedrale di musica fosforescente poggiata come un guanto di sfida sul tempio della tradizione.
Cento anni dopo l'Italia amatissima, e che gli scorreva nel sangue, continua a ricordarlo. Oggi il Teatro Comunale di Ferrara lo celebra con l'operita-tango "Maria de Buenos Aires" scritta con il poeta Horacio Ferrer e interpretata nel 1999 anche da Milva, artista che Piazzolla amò molto, che conobbe negli anni Settanta e con cui si esibì in Francia e nella stessa Argentina con notevole successo. Lo spettacolo è affidato al regista Carlos Branca con l'Orchestra Arcangelo Corelli diretta da Jacopo Rivani e il bandoneón di Davide Vendramin. E nello stesso giorno lo omaggia anche l’Istituzione Sinfonica Abruzzese al Teatro Comunale Antonellini dell’Aquila.
L'Italia, dicevamo, il Paese che lo accolse come un figliol prodigo, dove collaborò tra gli altri con Mina, Iva Zanicchi, Tullio De Piscopo e Marco Bellocchio per l'Enrico IV, dove incise la celeberrima Libertango, una composizione che con Oblivion è ancora segno e simbolo della sapienza musicale di Astor, anzi il Grande Astor, corteggiato pure da Bernardo Bertolucci. Il regista gli chiese di scrivere la colonna sonora di "Ultimo Tango a Parigi", la pellicola "scandalo" con Marlon Brando e Maria Schneider. Lui rifiutò sdegnato. Tre anni dopo si presentò a casa del maestro con un 45 giri in mano intitolato "El penultimo Tango". Disse, senza chiedere scusa: «Quel rigurgito di egotismo è stato uno dei più grandi errori della mia vita». Morirà a Buenos Aires il 4 luglio del 1992.
Ma cento anni dopo Piazzolla è ancora qui, fumantino e spettacolare: uno, trino, a capo di quintetti, sestetti, ottetti, capace di "vomitare milioni di note al secondo" per una musica che combina insieme languore e potenza, unisce lo spirito profano del "duende" con le visioni d'arte del Novecento, il secolo breve che Astor Piazzolla attraversò con la sua "caminada" unica ed eterna da uomo libero. Libero per sempre come un suono che strizza il cuore tanto è profondo e carnale.