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Ascanio Celestini: "So chi ha ucciso Pasolini. Si chiama Novecento. E noi siamo i suoi complici"

A colloquio con l'attore-regista tra i protagonisti del Festival del Viaggiatore a Villa Maser, in Veneto. Cosa conservare in un Museo dedicato al Poeta? Cinque tracce come bussole.

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
Ascanio Celestini: 'So chi ha ucciso Pasolini. Si chiama Novecento. E noi siamo i suoi complici'
Foto di Marco Rocelli

Ascanio Celestini cita spesso Vincenzo Cerami quando deve parlare del Poeta. Quella riflessione fulminante di Cerami: "Se noi prendiamo tutta l'opera di Pasolini dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film Salò, l'ultima sua opera, avremo il ritratto della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo alla metà degli anni '70". E infatti Museo Pasolini, il più recente lavoro teatrale di Ascanio, è un continuo rimando di citazioni: la vita, gli scritti, i film dell'intellettuale più scomodo ed eretico, cristico e profetico in relazione alle ferite della nostra Nazione. Quella terra amata e odiata, priva di afflato civile, tanto che nel 1961 PPP si augura che sprofondi nel suo "bel mare" per liberare il mondo.
Se c'è autore che Ascanio, mercuriale Ascanio, ha studiato, citato, portato in scena, trasfigurato, quello è proprio il Poeta. Lo chiama così, "Il Poeta", in Museo Pasolini - una piéce bellissima, dolorosa, fragorosa in uno scenario minimale - dove l'attore-regista-sceneggiatore prova a rinnodare i fili di una vita breve, 53 anni, appena, terminata in un massacro all'Idroscalo di Ostia.
Cosa conservare dentro questo ipotetico Museo? Quali sono i pezzi forti di questo gioco di prestigio che Celestieni compie nel ping pong costante tra il pensiero di Pasolini e la storia del Paese?
Ce lo racconta proprio Ascanio incontrato a Villa Maser, gioiello Palladiano, una delle tappe del Festival del Viaggiatore 2022, un'edizione ricca e consacrata ai rabdomanti.
"Intanto partiamo dal principo, perché la cronologia è importante. A sette anni Pasolini dedica una poesia alla mamma. Non è stata trovata. Ma non ho dubbio che esista. Scrive "verzura" invece di "verdura", tenta la rima, scandaglia il verso. Per la prima volta le parole che legge sui libri escono dalla sua matita, si fissano sul suo quaderno. E' una scoperta formidabile".

Pasolini con Orson Welles


Poi arriva il cimitero di Casarsa della Delizia. Che per Celestini è uno degli snodi cruciali. "Qui è sepolto il Poeta che ricevette due funerali, uno a Roma e uno qui in Friuli da parte di quello che era rimasto della famiglia". Qui ci sono le tombe dell'amatissimna madre Susanna e del fratello Guidalberto, detto Guido, partigiano della Osoppo, ucciso a 19 anni nell'eccidio di Porzûs, trucidato da altri partigiani, i comunisti delle Brigate Garibaldi, uno dei grandi paradossi irrisolti della Resistenza, una ferita divenuta cicatrice, ma indelebile. In questo camposanto raccolto, ordinato c'è anche il padre Carlo Alberto, militare autoritario. Fu proprio l'ex tenente di Fanteria, divenuto capo del servizio d'ordine di Mussolini nel 1926 a Bologna, a sventare l'attentato al Duce che doveva inaugurare lo stadio Littorio. Toccò a lui, al padre del Poeta, fermare un quindicenne anarchico, si chiamava Anteo Zamboni, lapidato e ucciso dalla folla inferocita mentre i militari restavano a guardare lo scempio di un omicidio pubblico, mai del tutto chiarito. Pensate che incredibili coincidenze.


Il terzo "oggetto" del Museo Pasolini che Ascanio ritiene fondamentale è la fine dell'innocenza, ovvero la tessera del Pci "il partito che lo ripudiò anche piuttosto frettolosamente": senza che lui potesse discolparsi dinanzi agli organi dirigenti del Friuli. E senza che il processo conclusosi con la radiazione per "indegnità morale" lasciasse troppe tracce. Solo un trafiletto sull'Unità.
Era la fine del 1949. Cacciato perché omosessuale sostiene la storica Anna Tonelli che per Laterza ha affrontato "Il caso di Pasolini nell’Italia del buon costume". "Ma - sottolinea Ascanio - rimase comunista". E nel 1975, a Roma, al Cinema Jolly all’assemblea di giovani e intellettuali, ribadì la sua scelta. Disse «So che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignota la corruzione, la volontà d’ignoranza, il servilismo. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965, e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro".

Pasolini con l'amatissima madre Susanna


L'Italia degli anni Sessanta si ricostruiva con fatica. L'obbligo scolastico era ormai un dato appurato, così come l'istituto delle case popolari per i meno abbienti. Eppure c'era chi continuava a vivere nei tuguri. "A Roma - racconta Ascanio - c'era un intero quartiere abusivo nato sotto le arcate dell'Acquedotto Felice. In una baracca di 9 metri quadri venne aperta la Scuola 725, dal numero civico della baracca. C'era un prete, si chiamava don Roberto Sardelli che disse: "Qui imparammo a spogliarci del vestito che ci avevano messo addosso di essere portatori di bisogni e indossammo l'abito di portatori di diritti". Le case, i dimenticati degli Acquedotti, le ebbero solo nel 1979 con un sindaco di Roma della Democrazia Cristiana, si chiamava Clelio Darida. Ma intanto i loro figli sapevano leggere e scrivere, portatori dei primi diritti.

Questo prete "di strada" esce ed entra attraverso voci, testimonianze, correlazioni in Museo Pasolini, ma segna un percorso, come una borsa. Sì, una borsa. Una borsa di pelle, una borsa pelle di nera di marca tedesca. Viene lasciata sotto un tavolo all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, a Milano. Non ci fa caso nessuno, quel giorno, era un venerdì e la filiale brulicava di gente. La valigetta contiene sette chili di tritolo ed esplode alle 16.37 del 12 dicembre 1969, uccide 17 persone, ne ferisce 87, ed è il capitolo uno della strategia della tensione in Italia. Segna il prima e il dopo della Storia della Repubblica.


E Pasolini scrive Patmos, prima dell'articolo sul Corriere della Sera in cui dice di sapere i nomi ma non avere le prove. Scrive delle vittime: Giovanni, Pietro, Attilio, Paolo. Scrive le loro storie e parla del ruolo dei politici dell'epoca, - Rumor, Saragat - ma anche degli intellettuali che dovrebbero scendere in campo con lui - Moravia e Antonioni-  ma preferiscono la lateralità. PPP profetizza perfino una specie di suicidio prima del volo di Giuseppe Pinelli, anarchico e ferroviere, da una finestra della Questura di Milano durante le indagini sulla borsa di pelle nera. La storia, le storie che si intersecano, tra un tentato golpe fascista - quello di Junio Valerio Borghese nel marzo del 1971 - e la privata/pubblica storia di Pasolini. Fino al massacro, quinto e ultimo indizio del Museo - il corpo devastato del Poeta all'Idroscalo - e tutte le contraddizioni, gli errori, le inesattezze di un'indagine svolta male, anzi malissimo.

Di questo abbiamo già scritto, e questo ricorda Ascanio in un crescendo che non è più teatro, ma croce e tragedia. 

Ascanio con Emanuela Cananzi, ideatrice del Festival del Viaggiatore. Foto di Marco Rocelli

 
Dice l'attore: "Lo ha ucciso il Novecento. Il colpevole dell'omicidio è sempre quello che ci guadagna di più. E' il dileggio dello sguardo di un poliziotto che immaginava di trovarsi davanti al cadavere di un uomo che indossava mutandine di seta", non semplice biancheria intima. Come ha scritto Alessandro Portelli su Il Manifesto: "La strategia messa in piedi da quello che Pasolini chiamava il Palazzo - per annullare la resistenza della poesia - consiste nel distogliere l’attenzione dall’immaterialità delle parole per sporcare, la materialità del corpo di chi le ha dette. Tornare a dirle, ascoltarle, inventarle di nuovo è il compito di chi prova a resistere". Nei cento anni della nascita del Poeta dovremmo provarci, infine, a resistere, come fa Ascanio. Con la sua medesima passione, quella di chi sa che "questo nostro mondo umano toglie ai poveri il pane e ai poeti la pace". A entrambe le categorie Celestini restituisce la voce attraverso il suo timbro circolare, impetuoso, commovente, radbomantico. Togliere la terra sopra i reperti, individuare le sorgenti, ridare valore all'immaterialità che diventa testimonianza, far brillare l'essenziale, quei versi che hanno ancora forma di rosa. 

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
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