Benvenuti nello zoo di Roma tra bestie di pietra, gabbiani voraci e cinghiali appestati
La Capitale non è solo la lupa e l'aquila. In ogni angolo del centro ci sono statue di animali: api, tartarughe, cervi, elefanti e armadilli. Poi, però, è arrivata la peste suina

Che Roma sia un bestiario a cielo aperto, ben prima dell'arrivo dei cinghiali, è cosa nota. Basterebbe guardarla, ogni tanto, questa città fuori dai luoghi comuni, dalla cartolina, dallo stereotipo. La lupa ad esempio: il famoso simbolo della Caput non è solo la statua in bronzo di epoca etrusca cui poi in età Rinascimentale furono aggiunti i lattanti Romolo e Remo. Fino agli anni Cinquanta era una povera bestiola spelacchiata e stranita, una vera lupa in gabbia, ai piedi del Campidoglio. A un certo punto il Comune, aggiunse un altro prigioniero: un esemplare maschio. Gli ululati erano così drammatici, strazianti che, per fortuna, entrambi furono portati allo zoo. Restando sempre in zona, proprio sulla scalinata che porta al Colle, ci sono due leoni trasformati in fontanelle. Le copie originali erano egizie di granito nero venato di rosso provenienti dall’Iseo Campense e già situate all’ingresso della chiesa di S. Stefano del Cacco. Le statue vennero donate nel 1562 da Pio IV al popolo romano per coronare la cordonata. Leggenda vuole che in talune festose circostanze dalle cannelle uscisse vino e non acqua e i romani si ubriacassero così tanto da rotolare fino al Teatro di Marcello.
A proposito di Santo Stefano del Cacco, forse non tutti sanno che si tratta di una piccola chiesa nel rione Pigna dedicata di fatto a una scimmia. Come riporta Cinzia Dal Maso in Specchio romano: "Per tutto il Medioevo e fino alla metà del Cinquecento, presso la chiesa era conservata una statua senza testa del dio egizio Thoth, raffigurato sotto l’aspetto di un babbuino, o macaco. Il popolo lo chiamava "cacco" e tale appellativo è rimasto alla chiesa anche dopo che la scultura, nel 1562, fu portata in Campidoglio, per passare, nel 1838, nella collezione egizia del Vaticano".

Roma è uno zoo di pietra, ma non solo. A Largo di Torre Argentina, proprio dove fu ucciso Giulio Cesare, c'è una delle colonie feline più note, amate, fotografate della città. E guarda caso poco oltre, verso Piazza Venezia, si trova via della Gatta: su un cornicione di Palazzo Grazioli, ex residenza di Berlusconi, c'è proprio la statua in marmo di una micia, recuperata dal Tempio egizio di Iside e posta in quell'angolo dall'architetto Antonio Sarti nel 1874. Il mito vuole che la gatta guardi un punto preciso, probabilmente a indicare il luogo dove è nascosto un tesoro che ovviamente non è mai stato trovato. Anche l'Elefantino di Piazza della Minerva, a un passo dal Pantheon, fa parte della grande collezione di animali della Capitale. Disegnato da Bernini nel 1667 e scolpito da Ercole Ferrata, il "pulcin" (come lo definivano i vecchi romani per via della stazza esigua) porta sulla groppa un obelisco anch'esso proveniente dal "sacco di Iside". E poi ci sono le api dei Barberini sulla fontanella di via Veneto, le tartarughe in Piazza Mattei, il cervo con la croce sulle corna sopra la Chiesa di Sant'Eustachio, mentre nella Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona si bagnano da secoli simboli e bestie: un leone, un drago, un armadillo, un delfino, un cavallo, un serpente di mare e uno di terra.
Un tempo era l'aquila l'altro grande simbolo della città. Oggi ha lasciato il posto a bande scatenate di gabbiani che usano l'Altare della Pietra un po' come le scogliere di Dover: è un monumento alto il necessario per una visuale ampia su eventuali prede, è bianco, è scaldato anche di notte da potentissime lampade, perfette per covare i piccoli. A contrastare i cieli romani, dopo la dismissione dei Mercati Generali ad Ostiense, sono arrivate le cornacchie, parimenti aggressive e affamatissime, mentre miriadi di pappagalli verdi, i parrocchetti che arrivano da Sud America e Asia, stanno scalzando specie autoctone come il picchio. Gli etologi hanno da tempo lanciato l'allarme ma nessuno li ascolta.
E arriviamo ai famosi cinghiali, presenti da almeno cinquant'anni nell'agro romano, che si è via via rimpicciolito per far posto alla città. Loro hanno continuato a riprodursi e in assenza di lupi a contrastarne il ciclo vitale, si sono presi il territorio compresi i bidoni dell'immondizia, sorta di supermarket dove la spesa si fa gratis. Coi cinghiali romani è arrivata sotto al Cupolone anche la peste suina africana, comparsa per la prima volta nei Paesi dell'Est nel 2007, e che non si sa bene né come né perché sia giunta fin qui. Fatto sta che ora il lockdown tocca agli ungolati capitolini, un po' trattati da malefici appestati, un po' adottati da interi quartieri che non vogliono saperne di abbattimenti o altre misure finali.
Se la peste suina non ci contagia, diverso è il caso del vaiolo delle scimmie o dell'influenza aviaria. Si chiama Spillover, come il saggio profetico di Dave Quamman, è il salto di specie tra animali e uomini ipotizzato come origine del Covid da una parte della comunità scientifica. Sotto accusa sono stati messi pipistrelli e pangolini, ma gli unici colpevoli siamo sempre noi umani, quelli che trattano senza alcun rispetto l'intero pianeta. Quelli che talvolta infettano gli stessi animali. Quelli che credono, con protervia e arroganza, di essere ancora al centro dell'universo.