Da Amy Winehouse a Iggy Pop: il corpo del rock entra nei musei come opera d'arte
Mostre, retrospettive, calendari (l'ultimo è della Pirelli): la carne della musica si fa cultura. Quattro libri spiegano come e perché

Una mostra su Amy Winehouse al Design Museum di Londra a dieci anni dalla scomparsa, un calendario Pirelli con gli scatti di una rockstar, Bryan Adams, che immortala il dietro le quinte di dodici musicisti: Cher, St. Vincent, Rita Ora fino a Iggy Pop, completamente dipinto d'argento. Il rock si fa carne, entra ed esce dai musei, occhieggia come oggetto/soggetto di design. Non solo stile, non solo linguaggio ma opera d'arte. Nel 2016 fu proprio Iggy a trasformarsi in scultura viva al Museo di Brooklyn, New York. Ventidue pittori lo ritrassero nudo per un totale di 107 disegni, uno studio quasi anatomico ideato da Jeremy Deller, artista inglese e sporadico frequentatore della Factory di Andy Warhol. All'epoca Pop aveva quasi 70 anni, "abbastanza vecchio per non provare vergogna".
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Il risultato sono tavole feticcio, dove l'icona è spogliata, privata di ogni barriera, vivisezionata: i muscoli cadenti, i fianchi privi di tensione, il fallo a riposo. Non è un caso che l'ex leader degli Stooges posi "senza veli" anche per Bryan Adams. La sua fisicità è metalinguaggio: totem ed estensione del messaggio sonoro. Spiega Jeremy Deller: “Il modo con cui manipola il suo corpo, lo ostenta, lo piega e lo strapazza è un modo per comunicare. E' musica, è un'onda di carne. Di lui ci sono migliaia di foto. Ma ho pensato che Iggy andasse guardato in modo diverso, come un'opera d'arte ”.
Il corpo, dunque. Il corpo nel rock è una costante, una categoria. Scrive Ian Chambers in Ritmi Urbani (Costa & Nolan, 1986): “E' il corpo che in definitiva produce la musica, ne fruisce e reagisce ad essa. Ed è il corpo che connette suoni, ballo, mode e stili con il riferimento inconscio della sessualità e dell'erotismo. Qui, dove fantasia e realtà formano un tutt'uno, il senso comune è spesso ridicolizzato, disgregato e distorto”.
Nell'immaginario collettivo in principio il corpo fu quello di Elvis Presley, “The Pelvis,” che con quel suo roteare il bacino come in un amplesso fece alzare il livello ormonale delle radio americane. Il primo re del pop che negli anni Cinquanta seppe saccheggiare i ritmi, la sensualità del rhythm'n'blues e servirli come canzonette da alta classifica. Un decennio dopo James Brown si riprese quello che apparteneva di diritto al Dna della sua gente fino a dichiararsi nel 1970 la “Sex Machine” per eccellenza e dettare lo stile a personaggi come Michael Jackson e Prince. L'altro punto di rottura, l'altro corpo maiuscolo, definitivo, è quello di Jim Morrison, leader dei Doors. Alla fine degli anni Sessanta si autocelebra come il “Re Lucertola”: estremo, visionario, poetico e maledetto. Bellissimo. Viene arrestato per aver mostrato i genitali in pubblico, ed è il moderno Dio dell'ebbrezza che ribalta ogni regola, la rappresentazione carnale dell'inno cantato da Ian Dury nel 1977: “Sex, drugs and rock'n'roll”. Frank Lisciandro in Diario Fotografico (Giunti 2007) scrive di Morrison: “In scena era come un festante dionisiaco, cantava dei miti moderni, e come uno sciamano evocava un panico sensuale per rendere significative le parole di questi miti”.
Il terreno è fertile, d'altra parte. I grandi raduni di Monterey, l'Isola di Wight e Woodstock - tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta - stabiliscono che il rock non è solo fenomeno di massa ma lo scenario giusto per ratificare la rivoluzione sessuale, politica e culturale di quegli anni affollati e affamati di liberà. Gli anni di Jimi Hendrix e di una chitarra che è insieme vaginale e fallica, quelli degli Stones e di Mick Jagger, tentatore come il demonio, la bocca più vorace della scena musicale del Novecento. Da Robert Plant degli Zeppelin a Roger Daltrey degli Who è una gara di addominali e bicipiti scolpiti, pantaloni che fasciano e lasciano intravedere erezioni mentre Frank Zappa, come un satiro, stende ad asciugare tra gli amplificatori gli slip lanciati dalle adolescenti ai suoi show. Altro che urla e lacrimucce per i Beatles...
In scena si ammicca pesantamente, le canzoni hanno testi fin troppo espliciti. In contemporanea col machismo estremo, un'altra corrente di suono e pensiero gioca con l'ambiguità di genere: il Glam si prende la rivincita sulla virilità ostenatata e attraversa il dualismo maschio/femmina tra piume di struzzo e mascara pesante. Così Bowie è il transgender perfetto, Lou Reed il vizioso per eccellenza, Marc Bolan, Alice Cooper e le New York Dolls la pantomima dell'eros, i Roxy Music un mix tra dandysmo e fantasie patinate e Freddy Mercury il pirata sognato da Genet.
Sul palco non c'è più solo una rockstar ma l'espressione stessa del desiderio, corpi che cantano, e non è casuale che fino all'inizio degli anni Settanta la fisicità sia tutta relegata ad un ambito maschile. E' solo con il punk e grazie anche alla consapevolezza del femminismo che le donne si trasformano da performer in soggetti attivi: carne, sangue, linguaggio, look. Analizzando la scena inglese nella metà degli anni settanta Dick Hebdige in Sottocultura (Costa & Nolan, 1990) conferma l'elemento consapevolmente trasgressivo : “Lo stile va contro natura, interrompendo il processo di normalizzazione e offendendo la maggioranza silenziosa”.
Il punk, in questo senso, spariglia ancora di più carte, usando quello che Vivienne Westwood definirà “abbigliamento di sfida”: catene, lattice, feticismo e sadomasochismo mescolati com mutandoni e svastiche. La perversione al potere e il corpo che diventa reato. Poly Styrene, Siouxsie o le Slits di Ari Up sembrano uscire dal retrobottega di un pornografo strafatto. Dall'altra parte dell'oceano Poison Ivy dei Cramps e Wendy O. Williams dei Plasmatics sono due furie dell'eros sfacciato mentre Deborah Harry dei Blondie tiene fede al suo passato di ex coniglietta di Playboy: platinata e deliziosa. Ma, come annota Dave Laing in Il Punk – Storia di una sottocultura rock (Edt, 1991), tutte loro, in diversi modi “disinnescano l'effetto eccitante previsto dall'esposizioni delle connotazioni proibite (…) I pantaloni bondage, le spille di sicurezza e le borchie erano elementi che appartenevano, sia sul palco che in strada, allo stile del punk di entrambi i sessi. (…). E forse la rottura con le forme convenzionali di abbigliamento fu più importante per le donne che per gli uomini”.
Il corpo del rock, nel tempo, è stato sovvertito, estremizzato, negato o amplificato a dismisura. E riportato in auge tra citazioni fluide e riferimenti "rocky horror" dai Maneskin, che "fottono il business" e lo cavalcano con la sfacciata bellezza di chi si prende la gloria quasi per caso. Dagli sculettamenti della disco al testosterone dell'hip hop, dal monacale luddismo del grunge ai paradossi mascherati e la negazione dell'identità di personaggi come i Devo, i Residents, i Kraftwerk, fino ai violentissimi esperimenti di carne di Genesis P-Orridge, dalla anatomia pompata e scolpita dell'hardcore, Henry Rollins in testa, alla fisicità virtuale dei ritmi digitali e della musica liquida: il corpo è sempre al centro, spettacolo e rivelazione, linguaggio, stile, comunicazione, moda. E infatti Amy a Londra è celebrata "Beyond the stage" attraverso il look: gli abiti di Jean Paul Gaultier e Chanel ai tempi di Karl Lagerfeld, quelli di Dolce & Gabbana, Vivienne Westwood, Moschino e Fred Perry. Ovvero l'involucro a contenere il suono, i tormenti, le discrasie. E sotto, sotto la stoffa, la carne. Un'onda di carne. Il rock insomma, l'ultima opera d'arte che resiste alla sua stessa retorica, si cita a piene mani ma sembra sempre una novità. Il segno, il sogno materico, il sempiterno fenomeno capace di entrare in un museo senza pagare il biglietto.