Accabadora: chi era davvero la donna nera che dava la morte nei paesi della Sardegna. Come agiva e perché
Una figura della tradizione orale sarda dal profilo sfuggente resa celebre dal romanzo di Michela Murgia. Ne parla Pier Giacomo Pala che l’ha studiata e la raffigura nel suo Museo etnografico di Luras: “Ci sono testimonianze, l’ultima del 2003”
“… sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine …”: è la legge non scritta appresa da Bonaria Urrai, da adolescente, quando una parente muore per parto. “…mai da allora le era venuto il dubbio di non essere capace di distinguere tra la pietà e il delitto”. Così scriveva Michela Murgia a pagina 93 di Accabadora (Einaudi, 164 pagine, 18 euro, 2009) con due frasi da tenere a mente per l’argomento di cui state per leggere. Nel romanzo, reputato dalla critica il capolavoro della scrittrice e attivista sarda appena scomparsa e vincitore del premio Campiello nel 2010, la narrazione si impernia su vicende di adozione, povertà, intrecci familiari, asprezza di sentimenti (viene da pensare all’Arminuta dell’abruzzese Donatella Di Pietrantonio del 2017) il cui fulcro è il paesino immaginario di Soreni: tra quelle case e viuzze in totale riservatezza si profila una figura richiamata nel titolo, l’accabadora appunto o, secondo un’altra dizione, la femina agabbadora. Chi era?
Portatrice di una morte invocata
Con il favore del buio una donna nota a tutti in paese veniva convocata dai familiari di una persona moribonda e preda di sofferenze senza scampo, o veniva invocata dalla persona stessa in letto di morte, affinché desse fine pietosa ai patimenti seguendo un rituale rigoroso. Soffocava il malato chiudendo bocca e naso con una mano, oppure assetava un colpo letale di martello (un malteddhu) all’osso parietale del cranio estraendolo da un sacchetto di lana grezza nera, forse ricorrendo a un cuscino in tempi più recenti. Un’eutanasia non dichiarata, quando non esistevano farmaci in grado di alleviare il dolore fisico.
Esisteva, ed esiste, questa donna nella Sardegna rurale?
Da questa narrazione consegue una domanda: è esistita ed esiste tuttora, questa donna, nella Sardegna rurale? Non tutti gli antropologi concordano sulla sua esistenza, tuttavia alcuni vecchi e anziani ricordano questa figura con dei parenti e non ne parlerebbero mai in pubblico, ancor meno a un giornalista. La tradizione è orale. Quanto a Michela Murgia, ha costruito un’opera narrativa informandosi con accuratezza tanto da citare nei ringraziamenti l’antropologo e poeta sardo Giulio Angioni per averla “costretta a rivedere qualche certezza di troppo sull’accabadora”. Si era documentata.
Se Angioni se n’è andato nel 2017, esiste un luogo dove approfondire: è il Museo etnografico Galluras a Luras in Gallura, nel sassarese, creato e gestito da Pier Giacomo Pala, in una casa antica a tre piani in granito e con una sezione riservata alla “femina agabbadora”. “Nel 1981 un anziano del paese in una delle nostre passeggiate mi disse che il nonno gli aveva parlato di una donna che abitava in uno stazzo in campagna e si occupava di porre fine alle sofferenze dei malati terminali colpendoli con un martello”, racconta Pala a Tiscali Cultura. Da quella conversazione iniziò a indagare.
“Nessuno sapeva niente, in realtà quasi tutti sapevano”. Le ricerche giravano a vuoto. “Quando apprendo che la femina agabbadora era anche ostetrica risalgo a chi erano state le ostetriche più anziane, rintraccio le case dove avevano abitato senza trovare niente". Nel 1993 un ritrovamento fortuito: "In un muretto a secco in demolizione vedo una pietra dalla forma diversa, rettangolare, tenuta nella parte superiore da un cuneo di granito. Incuriosito lo tiro via, la pietra cade, chiudeva una nicchia con un martello che prendo e vengo via. Solo dopo mi rendo conto di cosa ho trovato”. Quel martello è esposto a Luras.
La testimonianza di un parroco
Pala ha redatto un’antologia sulla Femina Agabbadòra (Editore Galluras, 517 pagine in due volumi, 40 euro) dove, riferisce, il primo a parlare di questa usanza “fu Bonaventura Licheri, un gesuita sardo vissuto tra il 1734 e il 1802”. Occorrono comunque testimonianze. “Sono documentati due episodi per denunce di familiari contrari al ricorrere all’accabadora, uno nel 1929 a Luras, uno nel 1952 a Orgosolo – riferisce ancora Pala alla nostra testata - Non seguirono condanne. L’ultimo caso che sono riuscito a documentare risale al 2003 ed è importante e affidabile perché viene da un prete che ha voluto incontrarmi: chiamato per sostituire per un giorno un parroco in un paesino vicino a Bosa, a marzo, nel confessionale una donna di 80-85 anni confessò a quel sacerdote di essere una accabadora, una 'femmina che aiuta a morire', disse, e di aver fatto l’ultimo intervento un mese prima a un malato di cancro”.
Prima di agire la donna si premurata che nella stanza del morituro non ci fossero immagini sacre né amuleti: un passaggio essenziale di questa pratica. “L’accabadora non uccide, mette fine: che è un’altra cosa”, scrive Pala nella sua antologia riportando la confessione riferita dal parroco. “La differenza? Si uccide per far male. L’accabadora, che personalmente non si propone ma arriva sempre e soltanto a richiesta, si limita ad accorciare un’agonia. Tutto qui”, scrive ancora.
Si può giudicare?
“La donna si recava a casa del malato all’imbrunire o di notte per essere meno vista – prosegue l’autore al telefono – Nella casa trovava l’ingresso e le porte interne aperte, i familiari si spostavano in un’altra stanza prima del suo arrivo così nessuno vedeva e nessuno era complice. Dopo andava via senza ricevere ricompense in denaro. Qualche giorno dopo un bambino le portava prodotti della terra come frutta, verdura, formaggio”.
Eutanasia oppure omicidio? Si può giudicare, dall’esterno? “… magari ti sbagli, e in cielo non si giudica come giudichi tu”, dice nel romanzo Andría Bastíu a Maria Urrai tornata dal “continente” in un duro confronto che la vede sconcertata perché l’amico aveva chiamato l’accabadora al capezzale del fratello di lui, Nicola. “Certo che era mio fratello. E voleva morire”, esclama infine il personaggio di Andría.
Come giudica questa pratica, ammesso che sia giusto esprimere giudizi, Gian Giacomo Pala? “Secondo me è un aspetto molto soggettivo – risponde - . Era un porre fine a sofferenze, ho testimonianze di malati terminali che urlavano giorno e notte per il dolore. È importante sottolineare che le persone arrivavano a quella soluzione in modo libero, non vincolati dalla Chiesa né dalle istituzioni”. Se la presenza dell’accabadora viene accertata, non si può non rilevare come un compito così gravoso fosse affidato a una donna, forse una levatrice, capace di aiutare nel parto. Nascita e morte si intrecciano. “La donna è più coraggiosa dell’uomo – osserva infine il proprietario del museo di Luras – e quella era una missione, ci voleva coraggio a fin di bene, per un fine positivo”. C’è materia per riflettere.
Clicca qui per il Museo etnografico Galluras a Luras