Pale eoliche ed agrivoltaico: non solo ambiente, danni enormi per la Sardegna. La lettera aperta di un illustre archeologo
Il professor Giovanni Ugas mette a nudo i drammatici pericoli nascosti dietro queste scelte. “Interessi voraci minacciano nuraghi, paesaggi, cultura, economia ed identità dell’Isola. La Sardegna si oppone agli speculatori non alle energie rinnovabili. Non siamo una colonia. Soffia un vento di ribellione”
Vento di ribellione
Lettera aperta del professor Giovanni Ugas (archeologo, ex direttore archeologico della Soprintendenza e già docente di Preistoria e Protostoria dell’Università degli Studi di Cagliari)
"Tante cose sono state dette e scritte sui tormenti dei Sardi e questo frettoloso scritto, lontano dalla storiografia del lamento, vuole essere un rapido richiamo alle ragioni della loro ribellione, a lungo sopita, che oggi sta esplodendo. I Sardi sono stanchi di soffrire in silenzio e la loro rivolta proviene dal cuore e dalla testa. La goccia che fa traboccare il vaso nasce dall’ennesima, perfida, iniziativa nei confronti della loro terra: un assalto nel nome della transizione energetica che, per come si prospetta, mette in pericolo non solo il paesaggio e i valori culturali ma la stessa identità del popolo sardo.
La creazione di tanti comitati spontanei e la raccolta di oltre 210.000 mila firme contro l’invasione speculativa che si nasconde dietro il messaggio del progresso salutare ed economico è solo un sintomo del sentimento di rivolta che agita i Sardi. Li spinge non una azione politica contro o pro un partito o una coalizione del governo regionale o italiano, come talora sostengono i giornali della penisola, ma la paura del domani che si profila assai peggiore del presente già insopportabile. I Sardi sono giunti al limite della tolleranza della loro infelice condizione e non combattono affatto contro le energie rinnovabili ma contro la insaziabile voracità degli speculatori, non diversamente da tanti cittadini della Regione Friuli Venezia Giulia e di altre regioni italiane (Puglia, Calabria, etc.).
Oggi i Sardi intendono respingere lo sbarco nell’isola dei falsi profeti della ricchezza e del progresso e vogliono costruire un futuro sereno e senza lacci perché la loro coscienza si ribella alle ingiustizie e alle ingordigie dei potenti. Saranno vani i tentativi dei parlamentari italiani di controllare questa rivolta con ipocriti sostegni o di demonizzarla con ulteriori decreti e leggi perché gli abitanti della Sardegna vogliono percorrere con grande determinazione il cammino della speranza in un futuro migliore, cammino che passa anche attraverso la rimozione delle cause del loro profondo malessere.
La Sardegna incatenata
Le straordinarie caratteristiche naturali della loro terra, le vicende della sua lunghissima storia, la lingua e la cultura sostengono che i Sardi sono un popolo distinto dagli altri, ma non sono liberi come altri da quando Cartagine, oltre 2500 anni fa, li rinchiuse con un recinto di navi. In seguito come i Cartaginesi, hanno deciso che la Sardegna era una loro terra Romani, Vandali, Bizantini, Pisani, Genovesi, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci, Piemontesi e Italiani. Anche la Corsica l’isola sorella, ha subito una sorte analoga e la Liberté e la fraternité se le tengono strette i Francesi e le tolgono ai Corsi. Sardi e Corsi non possono stare insieme; lo vietano le catene che si stringono intorno ad essi. Benché si proclamino paesi libertari, Francesi e Italiani operano con spirito coloniale e ad essi non importa che Sardi e Corsi siano popoli vicini e fratelli.
Dopo il crollo dell’impero Bizantino, qualche tempo prima del 1000 dopo Cristo, la Sardegna aveva acquisito la sua indipendenza dal dominio straniero con i Giudicati, ma dopo le mire espansionistiche di Genova e Pisa non poté mantenerla per l’intervento di papa Bonifacio VIII che, verso la fine del sec. XIII, preoccupato per l’avanzata degli Arabi e per il suo potere temporale, fece dono arbitrariamente del regno di Sardegna agli Aragonesi costringendo i Sardi a una guerra ingiusta e a un sacrifico di sangue. Da allora, da un padrone all’altro, di dono in dono come un monile qualsiasi, la Sardegna è finita nelle mani dei Piemontesi e poi dell’Italia. Alla fine del dominio spagnolo, dopo una fugace transizione all’impero austriaco, l’isola non decise liberamente di essere aggregata al Piemonte nonostante che il nome di Regno di Sardegna assunto dai Savoia senza corona, faccia pensare diversamente che la Sardegna occupò il Piemonte. Ancora con questo equivoco, il Regno di Sardegna ha costruito l’unità d’Italia e per l’Italia l’isola ha versato il suo sangue. Nella sostanza, il popolo sardo ha perso l’indipendenza per un grave sopruso, ma l’Italia che non ha alcun sentimento di riconoscenza calpesta sistematicamente la sua autonomia.
La Sardegna fuori dall’Europa
La Sardegna è una Regione Autonoma a Statuto Speciale, ma di fatto ha poche competenze primarie e anche su quelle lo Stato italiano tende a imporsi invocando le sue priorità nazionali. Lo Stato favorisce le regioni più popolose ed economicamente più forti e non c’è da meravigliarsi se i Sardi non possono eleggere neppure un rappresentante per il parlamento europeo a causa di una subdola legge che gli stessi Sardi vorrebbero cambiare e che i politici italiani impediscono che sia cambiata. Le leggi elettorali “furbe” non sono intelligenti ma semplicemente disoneste, un modo per mantenere il potere eliminando una parte sempre più consistente di elettori scomodi. I Sardi per un senso “del dovere” e di rispetto anche alle ultime elezioni europee hanno votato per i partiti italiani, cioè per quelli che impediscono ad essi di essere rappresentati in Europa. I Sardi non sono più disposti a tollerare tali imbrogli e intendono rispondere con determinazione alla volontà dello stato italiano di emarginarli e considerato che in Europa essi non hanno voce, gli Italiani alle prossime elezioni europee si eleggeranno da soli, senza i Sardi.
Le servitù militari, bombe e scorie
L’Italia ha concentrato il 70% delle sue basi militari in Sardegna occupando 35000 ettari di suolo sardo di cui i Sardi, ovviamente non possono fruire. Anzi, in caso di esercitazioni militari spesso i divieti si estendono anche ad altre aree. L’Italia dovrebbe pagare ai Comuni sardi quanto i Sardi pagano in tasse per l’occupazione, oltre che di aree marine, dei 35000 ettari di suolo, spesso offerti in prestito d’uso alla Nato per i suoi giochi di guerra. Ovviamente sono enormi i danni arrecati da queste servitù militari ai beni culturali e naturali del territorio sardo, all’economia (turismo sulle coste, terreni a vocazione agricola e pastorale) e alla stessa sicurezza dell’isola. Considerato che nessun pericolo proviene dalla prospiciente Africa nord occidentale, è palese che l’ubicazione delle basi militari in Sardegna non deriva da ragioni di sicurezza del territorio italiano e dei paesi della Nato; i motivi sono altri: quello principale è che non siano le altre regioni italiane a pagare per l’occupazione di suoli. Se i governi vogliono difendere nel migliore dei modi il territorio della Repubblica trasferiscano nella penisola l’esercito e le loro armi! La stessa Nato, trovi altre terre per le sue esercitazioni gratuite: i Sardi non debbono essere marionette nel teatrino delle guerre.
Gli affaristi tedeschi vengono in Sardegna per produrre le bombe che servono per sterminare altri popoli. I Sardi sono pacifici, ma oramai molti sono poveri e senza lavoro, e così questi galantuomini trovano qualche comune sardo disposto a cedere i terreni e persino le persone per dare una mano a preparare le bombe. Come sono ipocriti questi gentiluomini affaristi tedeschi, complici e amanti della guerra degli altri che non fabbricano in casa le bombe e se le fanno pagare senza correre rischi! L’Italia, fa finta di non saperlo, tanto chi subisce è la Sardegna non la penisola! Giusto la Sardegna non è la penisola!
La Sardegna ha bocciato sonoramente con un referendum, le armi nucleari: i governi italiani, dunque le altre regioni della penisola pensano di ricompensarla individuando nell’isola una delle aree destinate ad accogliere le scorie nucleari, oltre a quelle industriali e ai rifiuti di varia natura. Per lo stato italiano è facile liberarsi dei prodotti nocivi: l’immondizia, specie se è pericolosa, meglio che vada in Sardegna, perché è lontana e ha pochi abitanti! Come è brava e generosa l’Italia: non si preoccupa affatto dell’emigrazione dei Sardi e dello spopolamento dell’isola, ma fa arrivare i suoi rifiuti dove non colloca le sue basi militari! Se i Sardi proponessero di far pagare alle regioni settentrionali della penisola, quelle più benestanti, lo smaltimento e il trasferimento nelle stesse regioni delle pale eoliche dismesse degli impianti energetici imposti con la forza delle leggi in Sardegna, certamente i governi italiani non accetterebbero! Eppure si vuole imporre ai Sardi non solo le pale ma anche l’occupazione del suolo senza un ritorno economico!
Discontinuità territoriale, disservizi, spopolamento, emigrazione
Da vari decenni, lo Stato, coinvolgendo anche le Regioni, persegue l’accentramento dei servizi nelle grandi città, concentrando su di esse i finanziamenti e di conseguenza determina la fuga degli abitanti dai paesi dell’interno che ne sono sprovvisti e dunque l’emigrazione interna, verso le grandi città, e quella esterna. Con la stessa logica, per i finanziamenti statali delle infrastrutture stradali, lo Stato tiene conto del numero degli abitanti delle regioni e non dell’ampiezza e dell’articolazione morfologica e ovviamente la Sardegna è la regione più penalizzata, mentre ne beneficiano le aree più popolate del nord e le grandi città. Ovviamente, non si tiene conto del fatto che l’accentramento della popolazione rende i servizi più economici nelle grandi città e dunque dovrebbero essere queste ad avere meno finanziamenti per favorire le aree interne e il decentramento.
Della carenza delle infrastrutture e dei servizi soffrono soprattutto le zone interne che continuano ad avere strade tortuose da percorrere a 50 all’ora o addirittura inesistenti, con paesi vicini non raccordati tra loro. Le strade sarde sono in continuo rifacimento con ovvie conseguenze per la circolazione. Non mancano certo le strade trappole a due corsie costruite di recente come la nuova SS 125, separate per decine di km da strisce continue in cui non è possibile sorpassare e con gallerie ben poco illuminate, ovviamente con file interminabili e incidenti che bloccano la percorrenza. Gli esempi dei disagi nella viabilità stradale sono infiniti e non è il caso di continuare.
Per la rete ferroviaria basti dire che è addirittura abbreviata di molto rispetto agli inizi del Novecento e le corse sono sempre più ridotte. Sono tanti i raccordi ferroviari che dovrebbero essere realizzati o ammodernati. Ci sono turisti che da Cagliari pensano di raggiungere il complesso archeologico di Su Nuraxi a Barumini in treno. Non sanno che il raccordo della linea ferrata che da San Gavino conduce a Barumini è stata smantellata da vari decenni; basterebbe poco per ripristinare questo tratto di ferrovia, che serve una delle più importanti aree di attrazione turistica dell’isola per i suoi meravigliosi antichi monumenti, e collegarlo anche con la linea “del trenino verde” che transita per Mandas. Ma in Sardegna anche le piccole cose diventano impossibili. Oggi su quest’area della Marmilla e della vicina Trexenta ricca di monumenti e povera economicamente non incombono i treni ma le ombre nere delle pale eoliche e i latifondi dell’agrivoltaico.
Ci sono cose irrinunciabili come il diritto di spostarsi da un luogo a un altro. Tutti sanno quanto siano deficienti oramai da tanti anni i trasporti aerei e navali nell’isola. Per i Sardi non esiste la libertà di movimento e hanno catene che ora si stringono e ora si allentano a piacimento come i guinzagli dei cani da passeggio. I Sardi sono costretti all’isolamento da una insopportabile discontinuità territoriale col resto del mondo e in primo luogo con l’Italia, discontinuità imposta dai costi proibitivi, da mezzi di trasporto aerei e navali che spariscono in vari periodi dell’anno, da navi penose sul mare.
Gli amministratori della Regione Sardegna per invocare la continuità territoriale per i Sardi sono stati costretti all’unisono a chiedere al Governo di riconoscere per legge che la loro terra è un’isola! Gli Italiani non si accorgono pienamente che la Sardegna è un’isola se non quando viaggiano come turisti, ma i collegamenti funzionano senza intralci quando vengono trasportati i pericolosi rifiuti dalla penisola italiana e vengono trasferiti i componenti delle enormi pale eoliche e l’occorrente per gli smisurati impianti agrivoltaici dei latifondisti che invadono l’isola. Allora i trasporti sono persino scortati; ci tiene tanto lo Stato, anche bloccando la circolazione stradale e qualche tentativo di protesta. I governi italiani non vogliono le proteste in Sardegna. I collegamenti funzionano bene quando nei cieli dell’isola sfrecciano i bombardieri e quando le navi militari sbarcano sulle sue coste. I governi italiani, quando vogliono, anche senza il consenso dei Sardi sanno collegare molto bene l’isola alla penisola e al resto del mondo!
Che cosa ci si deve aspettare dall’Italia, uno Stato allo sfascio che, oltre ai beni vitali per l’esistenza quotidiana come le risorse energetiche, ha messo nelle mani dei privati i servizi essenziali? I trasporti non dovrebbero essere assegnati alle compagnie private perché hanno come fine il profitto, non certo la qualità e la continuità dei voli e dei percorsi navali; tutti sanno che non esiste la competizione e la concorrenza tra loro per abbattere i costi dei viaggi, ipocritamente predicata dai governi europei. In queste condizioni sperare nella continuità territoriale dell’isola col resto del mondo è pura utopia.
I governanti italiani non vedono ciò che avviene e non sentono le voci dei Sardi. I Sardi non possono sperare che, per risolvere la questione della continuità territoriale lo Stato italiano realizzi con la generosa Francia un ponte tra la Sardegna e la Corsica sullo stretto di Bonifacio, e un altro ponte tra la Corsica e la Toscana attraverso le piccole isole tirreniche! Con lo Stato latitante, l’unica soluzione per risolvere la continuità territoriale è la riproposizione di una flotta aerea e navale sarda con modalità differenti e con controlli più severi rispetto alla prima analoga iniziativa.
Il disagio sociale, la disoccupazione giovanile, la malasanità, gli incendi e l’acqua dispersa.
Dicono che i Sardi si lamentano sempre, ma perché dovrebbero rallegrarsi del loro grave stato di malessere? Da oltre 30 anni la Sardegna è tormentata da una disoccupazione preoccupante, non solo giovanile e la sua crisi economica oramai non è da meno di quella delle regioni più povere del meridione d’Italia. L’isola è sempre più povera e si spopola. I giovani sardi non trovano occupazione anche se diplomati, laureati e specializzati, nonostante il loro numero sia diminuito fortemente a causa del numero chiuso istituito per l’accesso alle Università, che, con la falsa scusante della sostenibilità e della governabilità del sistema, ha reso un privilegio di casta il diritto all’istruzione. Non c’è da sorprendersi se tanti ragazzi e giovani, senza speranze per il futuro, abbandonano gli studi anzitempo. Oramai per tanti giovani, in Sardegna, come in Italia, il diritto allo studio è un diritto negato che favorisce la disoccupazione e l’emigrazione.
D’altra parte è inconcepibile che in vari settori lavorativi ci sia carenza di personale, come nella sanità dove mancano laureati e diplomati. I giovani hanno non minore difficoltà a inserirsi nelle attività dell’agricoltura e dell’allevamento perché i costi di produzione sono intollerabili per tante ragioni, non ultima la dipendenza dalle multinazionali per ciò che attiene le sementi ed altro. Ovviamente le aree interne, già desolate per la grave carenza dei servizi, vedono aumentare sempre più lo spopolamento.
Oggi gli insegnanti della nostra isola sono costretti a fare i concorsi per accedere all’insegnamento e a insegnare in altre regioni accollandosi le spese notevolissime per i viaggi e i soggiorni. È indispensabile che fin d’ora la Regione Sardegna affronti un contenzioso con lo Stato sulla base della legge sulla Continuità territoriale della Sardegna; anche i parlamentari sardi debbono far sentire la propria voce presso il governo. Se lo Stato non vuole affrontare le spese per le trasferte, come spese per le missioni, per gli insegnanti sardi le sedi dei concorsi e d’insegnamento debbono stare nell’isola.
Il diritto alla salute è calpestato. Tutti sanno che la sanità è in stato comatoso; dovrebbe essere pubblica e di fatto non lo è, con attese infinite al pronto soccorso, con esami differiti di mesi, talora persino di anni, con i pazienti costretti a recarsi in luoghi lontani dalle loro residenze, anche fuori dalla Sardegna. Spesso le strutture sanitarie delle aree interne sono prive di attrezzature adeguate e di personale. Oramai molte persone rinunciano alle cure per i costi elevati e per le difficoltà che incontrano. È una situazione indecorosa per un paese civile che, come allude Papa Francesco, presta più cure ai cani che agli uomini. È stata favorita la privatizzazione dei servizi essenziali, sono stati finanziati nuovi ospedali privati con soldi pubblici, e negli ospedali pubblici medici e infermieri risultano in numero del tutto inadeguato. È inaccettabile che i medici possano lavorare in strutture pubbliche e ad un tempo in strutture private, togliendo ad altri medici la possibilità dell’occupazione. La giunta regionale eletta da poco ha il dovere di eliminare i malanni della Sanità; la libertà passa anche per la sanità. In questa situazione di crisi, la Regione Sardegna sta cercando di correre ai ripari chiedendo ai medici pensionati di rimanere o ritornare al posto di lavoro finché non ci saranno altri concorsi e dunque altre assunzioni; il governo dice che non si può e intanto i malati restano senza cure; assistiamo alla solita farsa all’italiana.
Un’altra delle piaghe che affliggono l’isola sono gli incendi dei boschi che provocano ulteriori gravi danni al già scarso patrimonio boschivo e forestale dell’isola con ripercussioni sul clima e sulla consistenza idrica. Nonostante il gravoso noleggio dei Canadair e l’assunzione di tante guardie forestali questo problema non è stato risolto e non sarà risolto se una flotta aerea sarda dotata anche di Canadair non opererà rapidamente contro gli incendi.
È assurda la mancanza d’acqua in Sardegna, sia quella potabile sia quella da utilizzare per l’agricoltura. Molti Sardi sono costretti a bere l’acqua potabile imbottigliata da ditte private e la mancata scorta dell’acqua nelle dighe non è giustificabile; è inconcepibile che un anno si butti al mare l’acqua delle dighe, con la scusa del mancato collaudo, e nell’anno successivo manchi l’acqua per irrigare i campi e talora per usi domestici. D’altro canto, l’acqua dalle dighe è fondamentale anche per incrementare l’energia elettrica e dunque per impedire l’assalto delle devastanti e intrusive pale eoliche. Purtroppo c’è chi non conosce ancora il racconto biblico delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre. Per inciso, perché in Sardegna tante importanti opere pubbliche, come le dighe, non hanno ricevuto il collaudo dopo tanto tempo dalla realizzazione dei lavori?! Perché non si completano le dighe in corso; chi ha interesse a impedirlo? Ma non è una energia, quella elettrica prodotta dalle dighe, più pulita e meno ingombrante delle pale eoliche e del fotovoltaico? Per gli speculatori dell’energia non lo è.
La lingua tagliata
Il piano di distruzione della lingua e della cultura sarda
C’è un passo della Costituzione italiana, l’articolo 33 che recita: L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento, e poi aggiunge La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione. Ma per la Sardegna le norme violano le premesse fondamentali dello stesso articolo 33. Infatti con la “Scuola dell’obbligo” è venuta a mancare la libertà di chi insegna e soprattutto di chi riceve l’insegnamento, cioè della comunità. Con la forza delle loro leggi, imponendo nell’isola l’obbligo dell’insegnamento in lingua italiana e vietando gli insegnamenti delle materie di studio in lingua sarda, senza alcun rispetto per l’identità del popolo sardo, i governi italiani hanno decretato la distruzione della sua lingua madre e del suo grande patrimonio di conoscenze relative a Lavoro, Letteratura scritta e orale, Arti, Musica, Usi e Costumi, e a tutte le altre espressioni culturali dell’isola. Ovviamente nella “Scuola dell’obbligo” della Sardegna non sono mai state insegnate, se non in modo estemporaneo, la Storia, la Geografia e le Scienze naturali dell’isola, col risultato che gli stessi Sardi conoscono molto approssimativamente le caratteristiche culturali e naturali della loro terra.
Un’esigenza fondamentale nei primi passi della didattica è partire dal conosciuto, dalla realtà in cui si vive, e dunque nell’isola la prima attenzione avrebbe dovuto essere rivolta alla cultura, a cominciare dalla lingua, e alla natura della nostra regione. Invece, contravvenendo alle più elementari norme della didattica, i governi italiani hanno impedito ai Sardi l’uso della lingua madre; anch’io ne sono stato vittima perché nel mio paese, come in tutti i centri interni dell’isola esisteva il peccato originale del parlare in lingua sarda. In conseguenza da bambino mi era impossibile scrivere “i pensierini” perché non conoscevo le corrispondenze in italiano dei nomi delle erbe e delle piante, degli animali, degli attrezzi da lavoro, di tutto ciò che caratterizza la vita quotidiana. Per questo mio essere un bambino sardo, a fatica e in tempi lunghi ho dovuto crearmi un mondo italianizzato e capire che i balocchi non erano is ballocas, le lumache, ma i giogus e che il camino non era su mori, cioè il sentiero, ma sa giminera. Per rispetto non solo delle regole della didattica, ma anche dell’identità dei popoli, si deve pretendere la conoscenza della lingua e della cultura sarda dalle persone che insegnano in Sardegna; nell’isola la lingua italiana, non essendo la lingua madre, doveva essere e deve essere insegnata come una lingua allogena, come l’inglese o il francese.
Il recupero della lingua e della cultura sarda.
In relazione alle lingue regionali o minoritarie, il comma 2 dell’articolo 1 della Legge 15.12 1999, N. 482, recita “La Repubblica che valorizza il patrimonio linguistico della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”. Appresso nell’art. 2 della stessa legge si afferma che, in attuazione dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi internazionali ed europei (dunque in armonia anche con la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 15.11.1992) la Repubblica tutela la lingua e la culture delle popolazioni parlanti le lingue regionali o minoritarie tra cui il sardo. Successivamente, nell’art. 4 comma 1 è scritto che “nelle scuole materne dei comuni (nei quali si parla la lingua regionale o minoritaria) di cui all’Art. 3, l’educazione linguistica prevede accanto all’uso della lingua italiana anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative. Nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto anche l’uso della lingua della minoranza come strumento di insegnamento”. Ancora, all’art. 4 comma 2 è scritto che “le istituzioni scolastiche elementari e secondarie di primo grado deliberano le modalità di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle tradizioni culturali delle comunità locali”, e infine, all’art. 4 comma 5 “al momento della preiscrizione i genitori comunicano all’Istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell’insegnamento della lingua della minoranza). Dunque si può notare da parte dello stato un’apertura nei confronti dell’insegnamento della lingua sarda ma non basta certo a risolvere i problemi dell’insegnamento e della stessa esistenza della nostra lingua.
Peraltro la citata legge N. 482 mentre recepisce in parte quanto previsto nella L. R 15 Ottobre 1997, N.26 (Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna), non rispetta del tutto la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992. Infatti nella Carta non solo si sostiene all’art. 7 comma d l’esigenza che gli stati europei “si adoperino per la facilitazione/incoraggiamento all’uso scritto e orale delle lingue regionali o minoritarie nella vita pubblica e privata”, ma anche all’ art. 7 comma h,2 si richiede l’ impegno degli Stati “a eliminare ogni atto che abbia lo scopo di mettere in pericolo il mantenimento o lo sviluppo della pratica di una lingua regionale o minoritaria”.
Ora, la Repubblica italiana non ha affatto eliminato ogni atto che abbia lo scopo di mettere in pericolo il mantenimento e lo sviluppo della lingua regionale della Sardegna, perché come si è detto, la Repubblica imponendo di fatto, in nome del progresso e dell’integrazione sociale, l’obbligo dell’insegnamento in lingua italiana nelle scuole materne, nelle elementari e nelle medie inferiori nell’isola e vietando ad un tempo gli insegnamenti delle materie di studio in lingua sarda, ha attentato al mantenimento della lingua parlata e scritta e della cultura madre, provocando danni enormi al patrimonio linguistico e culturale della Sardegna. Dunque l’Italia va condannata per quest’azione distruttiva.
Spesso i cambiamenti che si intende apportare vengono giustificati proprio in nome del progresso e dei benefici economici ma la storia umana insegna che molti mutamenti portano distruzione e regressione, basti pensare ai cambiamenti climatici, alle repressioni e alle guerre, alle violenze e alle schiavitù subite dai popoli. Solo l’eliminazione e il superamento di tali regressioni possono ripristinare, purtroppo solo in parte, i valori umani delle comunità e riaprire la via del futuro; nella sostanza è necessaria un’azione di resilienza nel senso che a questa parola ha attribuito il suo ideatore Boris Cyrulnik. Tra gli eventi nefasti della storia recente dell’Isola oltre alla distruzione della sua economia agricola e pastorale attuata in nome della politica industriale, rivelatasi fallimentare, è da considerare proprio l’attentato alla lingua e alla cultura sarda, perciò in Sardegna occorre una complessa azione riparatrice per l’economia, e una non semplice opera di restauro per la lingua e la cultura.
Poiché la lingua madre è un elemento identitario imprescindibile per ogni popolo, per una fondamentale opera di rivitalizzazione culturale nelle scuole dell’isola è un passo obbligato l’insegnamento della lingua sarda e delle materie di studio in sardo. Se lo Stato italiano, dopo aver progettato e imposto la distruzione della cultura sarda, tenterà di sbarrare la strada all’adozione della lingua madre nelle scuole dell’isola, la Regione Sardegna dovrà ricorrere agli organismi internazionali e, se non bastasse, l’intero popolo sardo dovrà affrontare una dura battaglia. I Sardi, hanno gli strumenti per vincere questa battaglia perché non si può impedire ad essi di parlare e di scrivere nella loro lingua madre, neppure nelle scuole e neppure per legge.
Nell’ottica dell’ eventuale contenzioso con lo stato occorre tener conto tra l’altro del citato l’articolo 33 della Costituzione italiana, secondo cui “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Sulla base di questo principio va considerato libero anche l’insegnamento della lingua e di tutti gli elementi della cultura in quanto aspetti della scienza. La lingua come la cultura non può essere solo quella italiana perché altrimenti verrebbe meno la libertà di chi insegna (gli insegnanti sardi) e non dimeno di chi riceve l’insegnamento (le comunità sarde). Non si può certo eludere il dettato dell’articolo 1 comma 1 della citata legge 15.12 1999, N. 482, “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”, ma non è specificato in quale forma l’italiano è la lingua ufficiale e si può ben intendere che l’italiano è la lingua degli atti ufficiali. L’insegnamento in sardo e non solo del sardo nella scuola dell’isola dovrebbe essere lecito a condizione che i relativi atti ufficiali siano redatti anche in lingua italiana e non solo nella lingua minoritaria.
Le azioni da intraprendere per il rinascimento culturale isolano non sono semplici ed è fondamentale il ruolo e l’impegno della Regione Sardegna. Da parte della Regione, attraverso il suo Assessorato all’Istruzione, gli uffici scolastici e una commissione di esperti, si renderà necessaria la predisposizione di un piano operativo (scelta delle materie, etc.) per l’insegnamento in lingua sarda, gradualmente a partire dalle scuole materne e dalle Elementari sino all’Università. Ovviamente nelle scuole, l’insegnamento delle varie materie di studio dovrà essere riservato solo a coloro che conoscono la lingua e la cultura sarda, tranne che per l’insegnamento delle lingue non sarde (italiano, inglese, etc.) e salvo che negli insegnamenti universitari.
Per i Sardi è fondamentale riappropriarsi pienamente dell’intero sistema linguistico che comprende il campidanese, il logudorese, il nuorese, il gallurese e il sassarese e le varie parlate degli abitati dell’isola, in particolare il tabarchino di Carloforte e il catalano di Alghero. Infatti, anche il sassarese e il gallurese vanno considerate lingue sarde in quanto radicate nell’isola sul piano geografico e storico. L’italiano va invece ritenuto una lingua dotta e veicolare e non può essere messo sullo stesso piano della lingua madre dei vari territori sardi.
Per realizzare questo non semplice obiettivo è indispensabile il concorso di tutte le comunità isolane e occorre superare qualsiasi divisione sulla questione del come insegnare la lingua sarda e in lingua sarda. Così come, per non perdere la straordinaria varietà e bellezza dell’abbigliamento tradizionale della nostra isola, non si può imporre alle donne di Orgosolo, di Tempio e dei Campidani di buttar via i loro abiti per indossare il vestito pur bellissimo di Samugheo, allo stesso modo non si può abbandonare la straordinaria varietà linguistica isolana, e per tale ragione occorre impiegare nell’insegnamento le lingue parlate nelle diverse aree (Logudorese, Nuorese, Campidanese, Gallurese, etc.) e non già una lingua comune, perché diversamente le lingue parlate, e con esse le espressioni culturali in genere, scomparirebbero ineluttabilmente nella gran parte dei paesi sardi. Una pallida idea di ciò che si perderebbe (tanto si è già perduto) del complesso linguistico e culturale potremmo averla se improvvisamente nell’isola fosse vietato l’uso di tutti gli abiti tradizionali.
In questo delicato processo di rinascita, l’obiettivo primario è la salvezza della lingua madre che rischia la scomparsa nelle diverse parti dell’isola, non già la ricerca della standardizzazione e dell’unità della lingua sarda, che pure ha un fine nobile, l’unità dei Sardi, e auspicata anche da illustri benemeriti studiosi. Tale ricerca, infatti, va condotta in modo democratico e non può essere risolta in tempi brevi con un’aristocratica decisione dall’alto. Giustamente Giulio Paulis (in M. Argiolas, e R. Serra (eds, Limba, lingua language, 2001, p.158) ha rilevato che ”la pianificazione linguistica (vale a dire la scelta di una lingua comune) può riuscire solo se avrà il riscontro della partecipazione collettiva e dev’essere fatta con la difesa della pluralità dialettale”. La lingua è la voce del popolo, un insieme complesso generato da una lunga storia e da vincoli territoriali, certo sempre in evoluzione, e non si deve distruggerla neppure in parte sia pure per un obiettivo rilevante come la lingua comune.
Per la stessa finalità della salvezza del patrimonio linguistico e culturale, parlato e non solo scritto, negli atti ufficiali si impone l’esigenza di adoperare la lingua locale in ambito comunale e provinciale (regione storica), e le diverse lingue sarde (Logudorese, Nuorese, Gallurese, Campidanese) in ambito regionale. Per quanto attiene alla complessità della questione, pensiamo alle quattro lingue della Svizzera, per giunta molto diverse tra loro e soprattutto all’esempio della Corsica. Per chi traduce in Italiano o in altre lingue è indifferente che egli abbia a che fare col Campidanese o il Logudorese. Sullo stesso piano, anche per le regole ortografiche è necessario partire delle diverse parlate e adottare norme rispettose dei testi scritti in sardo fin da antica data oltre che della formazione storica/etimologica delle parole e della pronunzia locale. Non è dunque giustificabile, ad esempio, la sistematica artificiale eliminazione delle consonanti doppie (baca, buca, seti, mama, anziché bacca, bucca, setti, mamma, etc. ).
In questo difficile percorso del ripristino della memoria, i figli che frequenteranno la nuova scuola e i nonni aiuteranno i padri, quelli più colpiti dalla bufera della scuola italiana. A tal fine in ambito locale può essere assai utile non solo il coinvolgimento degli anziani, ma anche l’utilizzo della letteratura e della poesia scritta e orale dei singoli paesi, basti pensare alle straordinarie raccolte etno-linguistiche di Enrica Delitala, oggi al Museo Etnografico Regionale di Nuoro, purtroppo in gran parte ancora inedite. Per la sopravvivenza della lingua e della cultura sarda in tutte le sue forme è indispensabile il contributo dei nostri illustri linguisti e più in generale degli intellettuali.
Al momento, la situazione linguistica sarda non è paragonabile a quella italiana che adottò la lingua di Dante, dopo un processo durato secoli. In futuro, quando la loro lingua madre sarà tutelata in tutte le sue forme ed espressioni e i Sardi avranno piena cognizione della loro storia linguistica e delle diverse parlate dell’isola, niente impedirà ad essi, se lo vorranno, di adottare una lingua unitaria negli atti ufficiali d’ambito regionale e nella stessa lingua parlata; ora, come detto, è un’impellente priorità risanare e recuperare il patrimonio linguistico parlato e scritto di tutto il popolo nelle sue diverse manifestazioni.
I falsi profeti dello sviluppo economico
La lotta per la rinascita della lingua e della cultura sarda non può essere dissociata dalla lotta per abbattere il disagio sociale, l’emigrazione, le tante servitù che lo stato italiano ha imposto e vuole imporre, a cominciare da quella energetica.
La Sardegna conosce bene i falsi profeti dello sviluppo economico venuti dal mare, i divoratori di alberi, gli industriali delle miniere, i trafficanti dei rifiuti. Essi hanno ottenuto i loro cospicui guadagni lasciando la Sardegna senza boschi, senza riserve minerarie e offendendo la natura con discariche di prodotti speciali che nessuno vuole. La Sardegna conosce bene il miraggio delle cattedrali nel deserto, come quella del polo chimico di Ottana, industrie che hanno inghiottito i soldi pubblici e poi i loro padroni hanno levato le tende, lasciando solo le macerie.
Le raffinerie di petrolio erano strategiche per l’Italia, ma nel campo energetico si impose la speculazione privata a scapito del controllo pubblico propugnato da Enrico Mattei fondatore dell’Eni; sono molti a pensare che non fu un caso che, agli inizi degli anni ’60, egli precipitò con l’aereo su cui viaggiava. Uno dei punti chiave del disegno energetico di Enrico Mattei era il rapporto con l’Africa nord-occidentale e con la sua fine è tramontata anche la prospettiva di un ruolo rilevante nel Mediterraneo assegnato dall’Italia alla Sardegna; è stata ribadita la sua marginalità. Si faceva credere ai Sardi che, con le industrie del petrolio nell’isola, il costo della benzina sarebbe diminuito, ma la realtà si è rivelata molto diversa perché ancora oggi la benzina costa non meno che altrove e i padroni degli impianti della Saras di Sarroch, i Moratti, nonostante siano stati tra gli industriali più seri giunti in Sardegna, e ora anche la società olandese Vitol con sede a Ginevra, non pagano le tasse nell’isola ma in un’altra regione, e si aggiunge la beffa dei profitti attribuiti all’isola, come se i beneficiari fossero i suoi abitanti, impedendo alla Sardegna di fruire per tanto tempo i contributi per le regioni povere. Quando cesserà l’attività dell’industria petrolifera ai Sardi resteranno in eredità le macerie e i veleni in tanti ettari di terreno e la Regione Sardegna non sarà risarcita per questo danno al suo territorio che resterà ai posteri: una servitù senza limiti di tempo.
Inizialmente le industrie hanno portato uno stipendio a un numero consistente di operai ma ora sono ben pochi gli occupati nelle industrie ed è svanito il miraggio di un mondo migliore per coloro che avevano abbandonato le attività dell’agricoltura, dell’artigianato e della pastorizia; con la perdita del lavoro sono rimasti nell’isola macerie, malattie e desolazione. È ben noto che anziché favorire la creazione di piccole industrie a supporto delle attività economiche isolane sono state sostenute grandi industrie allogene che hanno spopolato le campagne e i paesi e così i Sardi sono stati costretti a emigrare anche verso gli stabilimenti industriali dell’Italia Settentrionale e dell’estero. Come dimenticare le vittime della tragedia della miniera di Marcinelle in Belgio! Così in Sardegna è nata la crisi dell’agricoltura e della pastorizia, grazie anche all’intervento devastante delle multinazionali americane che controllano silenti e invisibili persino l’erba dei campi.
È di questi giorni la notizia che il polo metallurgico della Glencore di Portovesme ha chiuso in parte il polo dei prodotti minerari dell’Iglesiente e ricatta gli operai e la Regione Sardegna con un progetto di riciclaggio delle scorie di batterie al litio provenienti da tutto il mondo che lascerà in eredità ai Sardi una montagna di rifiuti pericolosissimi. Immaginiamo la ragione per cui non si realizza questa “meravigliosa” industria in Svizzera, nella casa dei signori della Glencore, o in Piemonte, la regione del Ministro del MASE (Ministero all'Ambiente e la Sicurezza Energetica) Gilberto Pichetto Fratin cui stanno tanto a cuore non solo queste scorie mondiali ma anche le invasioni della pale eoliche nel paesaggio e la colonizzazione dell’isola con gli impianti agrivoltaici.
Il piano della transizione energetica in Sardegna
Non si può fare a meno, in accordo con tanti studiosi e intellettuali, di esprimere un pensiero sulla questione della transizione energetica che da qualche tempo tormenta i Sardi, riprendendo quanto era stato scritto insieme a Raimondo Zucca in una lettera inviata il 14 luglio scorso alla Presidentessa della Regione Alessandra Todde e al Presidente del Consiglio Regionale Piero Comandini.
Come emerge anche dai comitati spontanei, uniti nella sigla Pratobello 24, che hanno raccolto oltre 200.000 firme, i Sardi hanno la piena consapevolezza che il piano energetico per la Sardegna così come è congegnato è un tentativo di occupazione neocoloniale della loro terra. Occorre lottare unitariamente, come sollecita Bachisio Bandinu, “contro la speculazione sulle fonti rinnovabili, che minaccia l’identità ambientale” e per “l’auspicabile prospettiva di un autonomo modello di sviluppo economico e sociale che generi salute e benessere diffusi”. Non di meno i Sardi, debbono difendere con fermezza, come si è detto, la loro identità culturale.
Sarebbe un tragico errore non capire la gravità della situazione e il sentimento popolare che esplode. La Presidentessa e i componenti della Giunta e del Consiglio regionale hanno il dovere civico di unirsi alla popolazione sarda per cercare le soluzioni più idonee per impedire un nuovo assalto, spregiudicato, all’isola; hanno l’obbligo di rappresentarla e di operare in armonia con essa. È una dura battaglia da affrontare insieme perché non si tratta di portare il consenso a questo o a quel partito, agli indipendentisti o agli autonomisti e non è in gioco il successo di un gruppo o di una persona ma la vita futura di tutti i Sardi e va abbandonato senza indugio qualsiasi interesse particolaristico. È importante che nei vari campi gli esperti mettano a disposizione le loro competenze per offrire una mano agli amministratori ed è altrettanto importante che gli amministratori li ascoltino.
Qualche giornale e qualche politico italiano scrive che i Sardi debbono essere solidali e accettare il programma delle energie rinnovabili così come è voluta dallo Stato, ma ciò equivale ad accogliere a braccia aperte coloro che vogliono devastare e occupare la loro terra; i Sardi, nel corso della storia, sono stati derubati dei prodotti agricoli e pastorali, degli alberi dei boschi, dei minerali e di tanti altri beni e ora sono stanchi, ma non è certo per una questione di rivincita che si oppongono al piano energetico italiano. I signori dei paesi del petrolio e del gas si fanno pagare lautamente per ciò che possiedono e non si chiede ad essi di sloggiare dalla loro terra, anche se non manca qualche tentativo di espropriazione forzata con le guerre. Invece dai Sardi si pretende, ora con modi garbati, ora con superficiale ironia, ora soprattutto con la forza delle leggi e dei decreti governativi fatti su misura, che rinuncino a gestire il paesaggio con i suoi valori ambientali e culturali e persino il clima che la natura generosamente ha dato ad essi.
Per i Sardi il piano per la transizione energetica imposto dall’Italia nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è un attentato all’identità della loro isola. Per favorire gli speculatori (non la popolazione italiana nel suo complesso!) con l’incremento della sua energia elettrica che sarà gestita dai privati, l’Italia pretende che la Sardegna si offra come vittima sacrificale producendo tanto per iniziare 6,2 gigawatt. Impone non solo una quantità di energia illimitata, il che di per se è una decisione scellerata, ma anche la devastazione del suolo sardo con impianti eolici, fotovoltaici e agrivoltaici per una energia che sarà prodotta e poi esportata, almeno in parte, tramite l’impianto del Thyrrenian Link gestito dalla Società per azioni TERNA, impianto che s’intende realizzare in territorio di Selargius con connessioni che sconvolgeranno anche il litorale marino di Quartu.
L’Italia sta offrendo generosamente in dono alle multinazionali non solo i finanziamenti del PNRR, ma anche l’energia e la devastazione della Sardegna, come se l’isola fosse un suo dominio coloniale. Dagli elenchi delle richieste per gli impianti forniti dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE), risulta che sono già pervenute richieste per la realizzazione di ben 3000 gigantesche pale eoliche a terra e altre 1500, ancor più invadenti, in mare di fronte alle coste sarde; un massacro paesaggistico. L’energia prodotta in Sardegna, quasi totalmente dalle multinazionali, sarà gestita da Società con capitali privati ENEL a livello regionale e TERNA a livello nazionale. I Sardi non produrranno e tanto meno venderanno l’energia generata da tali impianti se non per quote irrisorie e nessuno garantisce loro che non pagheranno l’energia elettrica col prezzo più alto d’Italia come avviene oggi (anche il 40% in più della media), benché, come detto, l’isola produca più energia elettrica di quanto consuma.
Possedere il sole e il vento sta diventando per i Sardi non un motivo per ringraziare il Creatore ma una seria minaccia ad opera di coloro che vogliono abbrutire la loro isola e impossessarsi delle loro terre. Il programma energetico per la Sardegna, così come è strutturato, non è affatto finalizzato anche alla resilienza e al rafforzamento dell’identità delle comunità come recita il PNRR finanziato dall’UE tramite il Next Generation EU (NGEU), il Fondo europeo istituito nel 2020 col fine di rilanciare gli investimenti e far crescere l’occupazione degli Stati membri colpiti dalla pandemia del Covid. Così, oltre al Covid, giunge ai Sardi un’inaccettabile beffa perché il piano di ripresa e di resilienza congegnato dall’Italia per la loro isola, violando palesemente gli stessi principi del PNRR, crea un nuovo dramma.
Eppure, uno degli obiettivi europei più rilevanti è la transizione verde che anche il PNRR deve sostenere e dunque, in conformità alle direttive europee, “Tutti gli investimenti e le riforme previste devono rispettare il principio del non arrecare danni significativi all’ambiente”. A giudicare i danni che possono essere arrecati all’ambiente dovrebbero essere le comunità locali presso le quali si realizzano gli impianti, dunque i Comuni della Sardegna e la Regione sarda. Invece, il MASE con leggi ad hoc, per “semplificare”, cioè per superare qualsiasi ostacolo e accelerare al massimo l’approvazione degli impianti energetici che gli stanno a cuore, soprattutto quelli più grandi, non inferiori a 50 megawatt, si arroga il diritto di contrastare anche i pareri delle Soprintendenze preposte alla tutela dei beni archeologici, cioè agli Uffici periferici dello Stato, nella sostanza vuole imporsi su un altro Ministero e fa di tutto per violare l’autonomia speciale dell’isola.
Non c’è da stupirsi se il MASE snobba tranquillamente le competenze della Regione Sardegna che, sulla base della Legge costitutiva dello Statuto speciale del 1948, può legiferare sia in materia di Agricoltura e foreste e in Opere di miglioramento agrario e fondiario (in base all’articolo 3 del Titolo II), sia sulle Opere di grande e media bonifica e di trasformazione fondiaria e su Produzione e distribuzione dell'energia elettrica (in base all’articolo 4). In queste materie, lo Stato dovrebbe operare in sintonia con la Regione Sardegna, mettendola nelle condizioni di ascoltare la voce del suo popolo e non di agire contro le sue necessità.
In maniera ancor più dispotica, il MASE viola la Legge regionale 13 luglio 2020, n. 21 sulle Norme di interpretazione autentica del Piano paesaggistico regionale (PPR) stando alle quali la Regione Sardegna ha competenza primaria sulla fascia costiera, sui beni identitari e sulle zone agricole, cioè su materie sottratte alla pianificazione congiunta tra Regione autonoma della Sardegna e Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. È evidente che, se in Italia c’è ancora un po' di rispetto per le leggi, non può essere messo nel cestino della carta straccia, il Piano paesaggistico regionale del 2006 (e successive modifiche, in particolare la Delibera G.R. n. 6/18 del 14 febbraio 2014) di cui fanno parte integrante i Piani urbanistici comunali (PUC). Il PPR della Sardegna ha il fine di: preservare, tutelare, valorizzare e tramandare alle generazioni future l'identità ambientale, storica, culturale e insediativa del territorio sardo; proteggere e tutelare il paesaggio culturale e naturale e la relativa biodiversità; assicurare la salvaguardia del territorio e promuoverne forme di sviluppo sostenibile, al fine di conservarne e migliorarne le qualità.
Il MASE giustifica tutte le sue azioni sulla transizione energetica con “il preminente interesse strategico nazionale” ma l’Italia non gestirà un solo watt di energia prodotta con questo piano energetico finanziato dal PNRR perché l’energia è del tutto in mano ai privati; ad essi sono destinati i frutti di questa colossale impresa di cui è regista il Ministero guidato da Pichetto Fratin e non alla popolazione italiana, ben che meno, come recita lo stesso testo del PNRR, alle comunità bisognose di sostegno sociale che per il Ministro non esistono e infatti non è per loro la ripresa e la resilienza! Per Pichetto Fratin i bisognosi di sostegno sociale, sono gli speculatori; bisogna aiutarli, poverini!
È ben chiaro che il Ministero di Pichetto Fratin ha ben altri obiettivi da perseguire che la serenità dei Sardi, ma considerato anche il fatto che il Vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, del suo stesso gruppo parlamentare, è venuto in Sardegna per dire che sosteneva la battaglia dei Sardi contro la politica energetica, cioè contro la politica voluta da chi guida il MASE, se avesse un po' di dignitosa coerenza, il Ministro Pichetto Fratin si dimetterebbe senza indugi.
Che fa la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni di fronte a questi nuovi propositi di calpestare l’isola; vuole infierire anche lei contro i discendenti di una parte dei suoi antenati e si propone di fermare i duecentomila Sardi che intendono marciare su Roma? Al riguardo può esserle utile una notizia: i Sardi arriveranno alla spicciolata, data la carenza dei mezzi di trasporto aerei e navali da e per l’isola, e senza moschetti perché le basi militari dell’isola sono indisponibili se non per progetti energetici e i soldati della Brigata Sassari sono già impegnati dall’Onu nel Libano.
Purtroppo, non c’è da scherzare perché è evidente la direzione scelta dal Governo italiano nonostante la sortita sarda del vicepresidente Tajani alla ricerca di consensi. Le strategie economiche dell’Italia tendono ad arricchire i potenti e non soccorrono affatto le comunità in difficoltà come quella sarda. Da vari decenni, lo Stato molto generosamente alimenta le multinazionali, come ora avviene con i soldi pubblici del PNRR, perché oramai il suo obiettivo principale è di svendere se stesso, non certo per il bene della collettività a giudicare dai risultati. Lo Stato si sta togliendo man mano le sue vesti e fra poco sarà nudo come Adamo dopo aver mangiato il frutto proibito; certo non chiederà le vesti per coprirsi ai potenti intoccabili ma alla bistrattata collettività, sempre più povera.
Ma perché gli imprenditori (sarebbe il caso di dire prenditori) delle regioni dell’Italia e d’Europa vengono a cercare l’energia in Sardegna? Se è così conveniente l’energia di origine solare ed eolica perché non la producono direttamente nelle loro terre? Nonostante che, come principale e pulita fonte energetica, stiano pensando all’idrogeno verde allo stesso modo dei Sardi, essi inventano la bugia che non hanno abbastanza sole e vento, e anche se fosse vero che dalle loro parti il sole si nasconde e il vento non soffia, perché non comprano l’energia dai Sardi e invece ritengono lecito sottrarla ad essi con il subdolo sostegno del governo, nella sostanza rubarla con lo Stato che funge da palo e copre le spalle?!
È naturale che non vivendo in Sardegna, questi “imprenditori” non sono attratti dal miele, dal mirto e da su proceddu e perciò non si preoccupano di deturpare l’isola con pale eoliche mostruose di 100, 200 e 300 metri d’altezza che rompono il silenzio delle campagne con rumori assordanti, che attentano all’avifauna, che impattano terribilmente sull’ambiente, sui paesaggi, e sulle aree agricole e pastorali sarde. La Sardegna non è solo una terra per vacanzieri che vogliono giustamente rilassarsi o divertirsi sui suoi litorali, è anche una terra di grande cultura e bellezza naturale nelle sue aree interne, nonostante gli orrori dei disboscamenti passati e degli incendi. Sarebbe un delitto per l’umanità intera la devastazione e l’abbrutimento dei suoi beni culturali e naturali che meritano di essere riconosciuti nel Patrimonio universale dell’Unesco nel loro complesso e con il loro contesto e non solo con una selezione di una sessantina di siti e monumenti prenuragici e nuragici.
Il popolo sardo non può sopportare l’invasione delle grandissime pale eoliche che aprono voragini nel suolo, che pongono problemi per il loro smaltimento e che deturpano il paesaggio agro pastorale e quello di non meno di 15.000 siti archeologici (uno ogni Km 2,0), tra villaggi prenuragici e nuragici, castelli e torri di età nuragica (da soli più di 7000), monumenti funerari prenuragici e nuragici, insediamenti e monumenti di antica età storica (punica, romana, bizantina e medioevali), oltre che di castelli e chiese rupestri di età storica, medioevale e moderna. Non si può sopportare che gli impianti offshore offendano le risorse marine e abbruttiscano i paesaggi delle meravigliose coste, sostegno dell’economia turistica dell’isola. È più che normale che gli speculatori non si preoccupano dell’ambiente e della cultura; ad essi interessano solo i profitti generati dagli impianti dell’energia elettrica che intendono realizzare. Meno normale è che non interessino al Ministero competente la tutela e la valorizzazione dei beni ambientali e che lo stesso ministero ritenga del tutto normale abbrutire il paesaggio del castello nuragico di Su Nuraxi in Barumini che fa parte del patrimonio dell’Unesco.
Ci sono altre evidenti contraddizioni e anomalie nelle decisioni del MASE. Il PNRR deve contribuire, nel suo complesso, al raggiungimento degli obiettivi ambientali fissati a livello UE per la transizione ecologica anche “attraverso l'uso delle tecnologie digitali più avanzate, la protezione delle risorse idriche e marine, la transizione verso un'economia circolare, la riduzione e il riciclaggio dei rifiuti, la prevenzione dell'inquinamento e la protezione e il ripristino di ecosistemi sani, in particolare delle foreste, zone umide e aree costiere, la piantumazione di alberi e il rinverdimento delle aree urbane”. Nella sostanza, il PNRR avrebbe potuto e potrebbe recitare un ruolo importante in Sardegna, date le precarie condizioni economiche dell’isola, ma finora i progetti legati alla transizione energetica che la riguardano non sono per nulla coerenti con gli obiettivi generali dello stesso piano. Certo è che nessun intervento è previsto per la protezione e il ripristino delle foreste e delle zone umide (come gli stagni), per la piantumazione di alberi di cui la Sardegna ha tanto bisogno perché martoriata dagli incendi.
Occorre tenere in considerazione il fatto che, in ottemperanza agli obiettivi europei del Recovery and Resilience Facility (RRF), nel paragrafo delle linee guida del PNRR relativo agli Assi strategici e priorità trasversali si sostiene che lo sforzo di rilancio dell’Italia si sviluppa intorno a tre assi fondamentali: digitalizzazione e innovazione; transizione ecologica; inclusione sociale. La transizione ecologica (di cui fa parte la transizione energetica) ha lo scopo di minimizzare l’impatto delle attività produttive sull’ambiente, di lasciare il Paese più verde e una economia più sostenibile alle generazioni future, e favorire la creazione di occupazione stabile.
Possiamo notare innanzitutto che, in contrasto netto con questi obiettivi, le opere previste in Sardegna con i finanziamenti del PNRR, non riducono affatto l’impatto delle attività produttive sull’ambiente ma esse stesse lo generano. Inoltre, la transizione ecologica, va condotta intersecandola con gli altri assi strategici del PNRR, in particolare con l’inclusione sociale, ritenuta “fondamentale per migliorare la coesione territoriale, aiutare la crescita dell’economia e superare diseguaglianze profonde spesso accentuate dalla pandemia”. Nel Programma europeo uno dei punti cardini è la coesione sociale che ha il fine di ridurre le disparità locali, regionali e fra centri urbani e aree rurali, dunque la risoluzione degli squilibri territoriali. Inoltre vi è un richiamo al fatto che “Il riequilibrio territoriale e lo sviluppo del Mezzogiorno non sono univocamente affidati a singoli interventi, ma perseguiti quali obiettivi trasversali in tutte le componenti del PNRR”, dunque anche con la transizione ecologica. In Sardegna ci sono tante disparità sociali e territoriali, non meno che nelle altre le regioni povere del Sud, soprattutto per lo squilibrio tra le città, che pure soffrono, e i paesi dell’interno che si stanno velocemente spopolando. Invece, i beneficiari dei progetti energetici eolici, fotovoltaici e agrivoltaici, finora presentati, non sono le comunità locali e perciò i loro impianti e il piano complessivo per la transizione energetica in Sardegna non rispettano le norme europee e dello stesso PNRR e non solo non ottemperano alle esigenze sociali, ma offendono i valori ambientali e culturali, dunque identitari, del territorio.
La dimostrazione che nei progetti per la transizione energetica non si tiene conto delle esigenze sociali dell’isola è che non emerge quanti suoi abitanti troveranno occupazione. Preoccupa soprattutto l’invasione straniera degli impianti agrivoltaici nei terreni agricoli, poiché i progetti fin qui presentati, stando ai dati forniti dal MASE, assommano a una potenza di circa 7 gigawatt, cioè fin d’ora superiori al tetto minimo di 6,2 gigawatt fissato per il programma energetico minimo imposto alla Sardegna, occupando tante migliaia di ettari di superficie gestiti da gente estranea all’isola. Il solo progetto cinese che impegna mille ettari nella Nurra dà un’idea di quante terre verranno sottratte ai Sardi.
In effetti, se per almeno una trentina d’anni, senza tener conto dei rinnovi, le enormi pale eoliche creeranno danni gravissimi all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio culturale, per l’isola gli impianti agrivoltaici sono ancora più nefasti. Stando al recente decreto del MASE entrato in vigore il 14 febbraio 2024, per accedere ai finanziamenti a fondo perduto (38%) del PNRR basta coinvolgere un imprenditore agricolo (anche con una quota di terreno irrisoria) “mediante l’iscrizione in appositi registri per impianti sino a 1 megawatt di potenza o “mediante la partecipazione a procedure competitive in funzione della titolarità e della taglia dei progetti per impianti di qualsiasi potenza allo scopo di realizzare almeno 1,04 gigawatt”. Nella sostanza bastano 6 di tali progetti per raggiungere il già citato tetto minimo di 6,2 gigawatt dell’invasivo piano energetico che si vuole imporre alla popolazione sarda.
Purtroppo, le società per lo più multinazionali che accederanno ai finanziamenti e realizzeranno gli impianti agrivoltaici mirano non solo al profitto, ma anche all’occupazione del territorio isolano, speculando sulla condizione di povertà dei contadini e dei pastori. Infatti, questi ultimi per la loro grave condizione economica o perché anziani, sono costretti a disfarsi dei loro terreni a causa delle tasse e dunque diventano facile preda degli speculatori dell’energia. È palese che il programma energetico non solo non allenta lo squilibrio sociale della Sardegna ma anzi lo aggrava terribilmente; ciò significa che in tale programma energetico manca del tutto la coerenza col Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato il 30 Novembre 2021 dal Governo italiano per rilanciare l'economia del Paese dopo la Pandemia di Covid, piano che ha il fine di finanziare opere destinate a migliorare le condizioni di vita della comunità, offrendo un sostegno economico e tutelando la loro identità. I Sardi non possono e non debbono accettare la subdola invasione aliena prevista dal piano energetico e poiché debbono essere considerati nulli nella gran parte i progetti presentati e talora anche incorso di realizzazione, perché incompatibili con i principi europei relativi alla coesione sociale e al rispetto dei valori identitari delle comunità, il MASE ha il dovere di rimodulare insieme alla Regione Sardegna il piano della transizione energetica, non solo in funzione della produzione di energia ma anche della ripresa economica delle comunità sarde e della difesa e valorizzazione dei loro beni identitari.
In ogni caso, la Sardegna non deve più essere trattata come una colonia. I Sardi non meno dei padroni del petrolio, hanno il diritto di gestire i beni della loro terra. Chi vuole l’energia del vento sardo la paghi, come in una normale prassi del mercato; non pretenda di averla con la forza. L’isola non può patire anche per la gestione privata dell’energia elettrica. C’è da augurarsi che la Regione Sardegna realizzi l’Agenzia Regionale per l’Elettricità, come sembra intenzionata, e anche più in generale per le fonti energetiche, al fine di incidere di fatto sui costi elevati di luce, gas etc., sottraendo gli ingiusti profitti alla brama degli speculatori.
Finora ben poco è stato fatto per frenare l’esodo dei Sardi dalle campagne e occorre soccorrere le comunità dei paesi dell’interno e impedire che, con i finanziamenti del PNNR, calino gli avvoltoi sulle terre degli agricoltori e degli allevatori. Purtroppo c’è il timore che gli sciacalli si siano già impadroniti di molte terre e occorrerà annullare i passaggi di proprietà irregolari. La Regione Sardegna ha il dovere di respingere il gravissimo piano di occupazione coloniale; potrebbe acquistare i terreni di chi non può coltivarli, ridistribuendoli a chi ha la possibilità di lavorarli, nella sostanza attuando una nuova riforma agraria d’intesa con i Comuni, favorendo ad un tempo la realizzazione di impianti agrivoltaici e fotovoltaici da parte dei piccoli imprenditori locali, anche in forme associative.
Vento di ribellione
Spira un vento forte e non è quello che deve far girare le pale eoliche. La popolazione sarda non è più disposta a subire l’arroganza dei governanti italiani e neppure gli errori dei propri amministratori, di qualsiasi partito essi siano. Non c’è retorica: la popolazione sarda pretende ciò che dovrebbe essere la norma: la competenza e la serietà di chi si candida per amministrare il bene comune; un compito non semplice, ma può essere svolto con serenità se gli amministratori camminano in sintonia con le esigenze della gente.
Dicono che i Sardi si lamentano sempre, verissimo. Il fatto è che hanno tante ragioni per farlo, ma le loro lamentele non vengono ascoltate e le ragioni dei loro mali mai risolte. Che cosa bisogna fare perché si ponga un freno alla crisi delle campagne e dei settori produttivi, alla disoccupazione, all’emigrazione, allo spopolamento dell’isola, alla malasanità, al disagio dei paesi per la mancanza di servizi essenziali, alla discontinuità territoriale, alla devastazione della loro antica cultura? Per la fine delle lamentele vi sono due soluzioni; continuare a porgere l’altra guancia ed evitare di parlare o fare la guerra alle ingiustizie dei governi. Da pacifista, mi auguro da parte dei Sardi una decisa e proficua guerra gandhiana, con l’aiuto degli uomini di buona volontà della terra. Non è semplice ma, la guerra del sale dell’India, è stata una via per ottenere la libertà dai dominatori. Facciamo la guerra dell’energia e le altre guerre necessarie per raggiungere un’esistenza tranquilla.
La Sardegna lotta per far valere la sua lingua madre, si ribella al disagio sociale, alle servitù militari, allo scempio del suo territorio con le pale eoliche e all’espropriazione delle sue terre con la creazione dei latifondi “agrivoltaici”, assecondata da chi predica il meticciato universale, falso e costruito come un robot, e sostiene che lo spopolamento della Sardegna si risolve con l’immigrazione di altre genti da sfruttare. È la stessa nuova colonizzazione di chi vuole le guerre per immiserire ancor più gli abitanti delle regioni povere del mondo e costringerli all’emigrazione. Ciò che è già avvenuto nell’Africa con il neocolonialismo lo si vuole imporre in Sardegna: i Sardi verso altre terre e altre genti in Sardegna! Che bella filosofia emerge da questi concetti! Il malessere dei popoli non si supera facendoli emigrare da una parte all’altra del mondo come marionette mosse da fili più o meno invisibili, ma risolvendo la gravissima crisi economica delle zone povere ed eliminando la proliferazione delle guerre.
Si dice sempre che l’umanità, come la natura, è bella perché è varia, e dunque non si deve imporre un gruppo umano su un altro, qualsiasi aspetto esso abbia, perciò predicare e favorire il meticciato attraverso i processi di colonizzazione è una nuova forma di razzismo, il razzismo di chi giustifica il colonialismo. Ci sono tanti modi per incontrarsi e fraternizzare tra i popoli; l’emigrazione è sempre un dramma e chi non lo capisce ha poca sensibilità per chi è costretto ad emigrare per vivere degnamente in questa terra. Non si può confondere il messaggio di Papa Francesco sull’obbligo morale dell’accoglienza di chi soffre e forzatamente emigra con la strategia neocolonialista fondata sulle tragedie umane delle guerre, l’impoverimento e l’emigrazione delle persone!
È giunta voce che il governo sta per proporre un disegno di legge per l’aumento delle pene per chi protesta contro le opere considerate strategiche; è da ritenere che questi provvedimenti interessino in particolare le servitù militari e le energie rinnovabili. I governanti non sono molto attenti alla povertà e all’emigrazione, ma sono molto bravi a impedire che si alzino le voci del dissenso per i soprusi. Ai provvedimenti di Pichetto Fratin sulla programmazione energetica, finalizzati a rendere inutile il parere degli amministratori locali dei territori interessati, si aggiunge anche la repressione programmata dal governo verso la protesta per giuste cause.
Non saranno le minacce delle armi a fermare la lotta per difendere i valori umani e la giustizia, non sarà la paura del carcere o di altre pene a frenare i Sardi nella loro ribellione come non fermò Sigismondo Arquer, Giovanni Maria Angioy, Emilio Lussu, Antonio Gramsci e tanti altri protagonisti della lunga storia dell’isola, perché alla battaglia parteciperà una moltitudine di Sardi. Per evitare un orrendo futuro ai nostri figli, i Comitati che hanno proposto la legge Pratobello 24 e tutti i firmatari per il suo riconoscimento hanno cominciato a illuminare la strada da percorrere; in questa strada non debbono mancare gli Amministratori sardi, comunali e regionali al di là delle loro etichette di partito. Se qualcuno di essi, volente o nolente, si è già indirizzato su una strada diversa, abbia il coraggio e il buon senso di tornare sui suoi passi e di aiutare la collettività a superare questo momento difficile.
L’Italia è sempre più lontana e se lo Stato continua a considerare la Sardegna non una regione italiana ma una colonia, per raggiungere l’agognata meta della tranquillità e del benessere, al popolo sardo non resta che percorrere con determinazione la strada che porta all’indipendenza. Gli amici della penisola forse non tutti capiranno, ma la nazione sarda è nata assai prima di quella italiana e sta da millenni nel profondo del cuore della gente dell’isola e se Roma considera ancora la Sardegna una provincia, il suo popolo lotterà per la libertà".
GIOVANNI UGAS
VEDI ANCHE
Cronaca di una passeggiata con Giovanni Ugas sul sito del nuraghe di Monte Urpinu a Cagliari