Il Covid ha infettato anche la lingua italiana: ecco come siamo peggiorati con la pandemia

Gli anglicismi troppo diffusi, purtroppo anche dalle Istituzioni, non sono compresi da un gran numero di cittadini italiani e possono provocare disorientamento e equivoci pericolosi in una materia molto delicata come quella della salute.

Il Covid ha infettato anche la lingua italiana: ecco come siamo peggiorati con la pandemia

“La pandemia da Covid ha provocato anche danni linguistici, con una diffusione di parole inglesi che, mal pronunciate e spesso non capite o fraintese, sono entrate nell’uso, attraverso i mezzi di informazione e i social. Questi termini, diffusi purtroppo anche dalle Istituzioni, non sono compresi da un gran numero di cittadini italiani e possono provocare disorientamento e equivoci pericolosi in una materia molto delicata, come quella della salute”.

Ha ragione la linguista Valeria Della Valle, coordinatrice del Vocabolario Treccani, consulente scientifica dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e direttrice dell’Osservatorio neologico della lingua italiana. Ma purtroppo non è solo il virus, il responsabile di questa invasione di termini stranieri che sostituiscono quelli italiani. 

Si dice che l'italiano sia una lingua maltrattata e che negli ultimi decenni abbiamo assistito alla scomparsa di troppe parole e all'aggiunta di altre che hanno radici straniere. Si dice che i giornali siano scritti male. In parte è vero, in parte dovremmo chiederci cosa intendiamo per scritto bene? Forse la riflessione da fare è un'altra e cioè che l'italiano è obiettivamente una lingua condivisa, usata, parlata, finalmente da tutti. Perché i dialetti sono diventati marginali, alternativi e non sostitutivi. Più una lingua viene utilizzata più questa cresce, si modifica, si plasma. Il mondo che racconta oggi, questo non dobbiamo dimenticarlo, è un mondo globalizzato. 

Il problema che vorrei affrontare però, non è dunque il normale sviluppo di una lingua. Ma come nel giro di due anni questa sia diventata troppo complicata per alcune fasce della popolazione.

“I termini stranieri vengono propagati per pigrizia, inerzia o desiderio di esibizione”, lamenta la professoressa Della Valle che ricorda, ad esempio, che sarebbe sufficiente dire e scrivere “confinamento” invece di “lockdown”, “goccioline” invece di “droplets”, “focolaio” invece di “cluster”, “distanza fisica” invece di “social distancing”, “lavoro agile” invece di “smart working”, “passaporto vaccinale” o “passaporto verde” oppure “certificato Covid” invece di “green pass” e “richiamo” invece di “booster”.

Perché come conclude la linguista: “Sostituzioni facili e immediate, a costo zero, che avrebbero evitato l’inutile proliferazione di parole inglesi superflue in un periodo nel quale la chiarezza nella comunicazione è fondamentale”.

Qui vorrei soffermarmi sulle responsabilità della politica. I discorsi roboanti e aulici ormai da un po' di tempo non vanno più di moda nei comizi, figuriamoci sui social. Quando un politico si rivolge ai cittadini tende a presentarsi come uno di loro.

Vi siete accorti che dal burocratese siamo arrivati a un linguaggio tendenzialmente aziendalistico? E quale è la lingua (per cultura) più aziendalistica? L'inglese per eccellenza. Il punto è che le nostre Istituzioni non stanno internazionalizzandosi ma semmai provincializzandosi. E' un po' come quel giovane o quella govane del Sud che andavano al Nord in visita da un parente emigrato per una settimana e tornavano a casa con l'accento milanese.

E l'Accademia della Crusca cosa dice?  Anche loro affermano che un eccesso di esterofilia è un segno di provincialismo, visto che abbiamo una bellissima lingua ed è inutile usare parole straniere quando ce ne sono di italiane.

In questi mesi si sono diffuse nella lingua scritta e parlata “espressioni che sono diventate di uso più o meno comune e che hanno origine vera nell’inglese, come ‘lockdown’, oppure sono finte, perché hanno un aspetto inglese, sì, ma privo di riscontro nell’uso degli anglofoni nativi. Quest’ultimo è il caso del ‘green pass’, espressione, come è stato ormai appurato, priva di circolazione in Usa e in Inghilterra, fortunata solo in poche nazioni, tra cui l’Italia, e priva di ufficialità anche nell’Europa unita (dove il cosiddetto ‘Green pass’ si chiama Digital Convid certificate)”. Lo afferma proprio il presidente dell’Accademia, Claudio Marazzini.

Va precisato, tuttavia, che un anglismo non è necessariamente oscuro di per sé – osserva l’illustre storico della lingua italiana – ‘no vax’ si allinea ad altre forme analoghe come ‘no tax’, ‘no pass’, ‘no mask’, ‘no Tap’ ecc., e ad altri analoghi costrutti precedenti anche più italiani, come ‘no Tav (no + Treno ad Alta Velocità). Credo dunque che no vax sia chiarissimo, nella sua elementarità semantica”.

Diverso il caso di parole come “droplet” e “booster”, sostiene il professore Marazzini: “queste erano inizialmente ignote alla maggior parte degli italiani, e probabilmente ora sono note, sì, ma superficialmente: non tutti saprebbero spiegarne esattamente il significato, che viene ricavato in maniera approssimativa in base al contesto. Perlomeno, questa è la situazione della maggior parte della gente”.

Secondo l’Accademia della Crusca, la secolare istituzione fiorentina incaricata di custodire il ‘tesoro’ della lingua italiana, “droplet” e “booster” “sarebbero da evitare: si può certamente invocare il diritto dei cittadini a una comunicazione chiara. Invece ‘booster’ è finito persino nella modulistica che si firma all’atto di ricevere la terza dose”.

La formazione specialistica di molti operatori sanitari, anche di alto livello, li rende ormai troppo spesso refrattari all’uso linguistico della nazione. Infatti, per chi valuta lo stato di salute della lingua, il problema è ancora un altro, e ben più grave, cioè il seguente – spiega Marazzini -: non una sola novità si affaccia all’orizzonte, in questo periodo emergenziale, la quale non porti un nome, autentico o artefatto, in inglese; come se la nostra lingua fosse assolutamente inerte e improduttiva, o perlomeno come se tali fossero, rispetto alla lingua medesima, gli esponenti della classe dirigente che se ne servono. Anzi, che non se ne servono”. Ha concluso poi dicendo: “Si pensi del resto all’abuso di ‘food & drink’ in tutte le occasioni, al fatto che i nostri animali domestici sono ormai tutti ‘pet’, e mangiano solo ‘pet food’, e che alcune catene commerciali, anche nella loro pubblicità, non dicono più di avere ‘negozi’, ma solo ‘stores'”.

Una lingua per cambiare deve lasciare il tempo alle bocche che la parlano di metabolizzare quella evoluzione. Politica e scienza non hanno permesso di fare questo.

Come ci comportiamo dunque (soprattutto noi mezzi di informazione)? Schiacciamo un attimo il freno e riprendiamo a usare i nostro vocaboli?

Anche solo perché siamo un Paese democratico e capire dovrebbe essere un diritto di tutti.