Nuraghi e crisi della storia: il più importante fatto culturale dell' Occidente prima di Cartagine e Roma
Il noto archeologo Giovanni Ugas su cultura sarda, lingua e patrimonio archeologico: "Quando si parla della civiltà nuragica l’enfatizzazione del meticciato è fuori luogo. L'architettura nuragica già destava la meraviglia degli antichi scrittori greci. Per l’età del Bronzo è un evento unico e straordinario come lo sono le manifestazioni artistiche dell’Egitto dei Faraoni e della Creta minoica
Gli argomenti trattati nell’articolo di Maria Antonietta Mongiu del 7 settembre 2023 Sui nuraghi e sulla crisi della Storia inserito nella rubrica La città in pillole del quotidiano l’Unione Sarda mi offrono lo spunto per alcune considerazioni.
Si può essere pienamente d’accordo con l’amica Maria Antonietta quando accenna alla crisi della conoscenza dei giovani e a un ritorno latente all’analfabetismo, anche se non entra nel merito della ragione di questa crisi dovuta, tra l’altro, al gravissimo disagio sociale derivato dall’assenza del lavoro, dalla mancanza di prospettive e da tanti altri malesseri della società, in particolare quella sarda; malesseri che portano all’emigrazione e alla crisi demografica in generale e in particolare allo spopolamento delle aree interne. A proposito di giovani, da oltre trent’anni, in nome della programmazione dei posti di lavoro è stato adottato il numero chiuso per accedere alla facoltà di Medicina e ad altre facoltà universitarie, strumento che favorisce, è sotto gli occhi di tutti, le mire privatistiche a scapito dell’utilità pubblica; è conseguente la mancanza di medici e di altre categorie lavorative essenziali per una sana vita della comunità. Ma il diritto alla conoscenza, come il diritto al lavoro non dev’essere libero e garantito per tutti? Perché continuare a negare a tanti giovani la possibilità di realizzarsi, di sentirsi utili alla comunità?
Nell’articolo di Mongiu si parla della storia sarda e qui una freccia è puntata contro “l’idea di chiedere per legge non l’incremento dello studio della storia anche locale, già previsto, ma di un particolare periodo storico e dei suoi manufatti, nella fattispecie i nuraghi”. Giusto, la storia sarda va vista nella sua interezza, dando risalto agli eventi più significativi, evidenziando i periodi di magnificenza, eccellenza nell’arte e benessere, crisi e malessere, libertà e oppressione. Visto che siamo in tema di cultura sarda, aggiungo che è auspicabile e necessario che la nostra Regione finanzi non solo i testi scolastici di Storia sarda, ma anche i testi per l’insegnamento della Lingua sarda e per gli insegnamenti in lingua sarda delle materie obbligatorie nell’iter formativo dalla Scuola materna all’Università. Si continua a dire che il sardo è la lingua madre dei Sardi, ma non siamo lontani dal dire che era una lingua madre e che non c’è più. C’è la sensazione che si continui a ritenere che la lingua sarda, di fatto sempre proibita dalla scuola di stato italiana, sia un peso e non un arricchimento per i giovani. Se non si adottano con urgenza misure adeguate sarà difficile impedire la scomparsa totale della lingua sarda nelle sue varie parlate e ad un tempo la fine della nostra cultura e della nostra identità di popolo.
Nello scritto di Maria Antonietta si affaccia una malcelata contrarietà all’attenzione sui nuraghi e mi pare francamente riduttiva la sua semplicistica idea che i nuraghi “in molti casi sono di lunga durata e fotografano un’identità plurale; meticcia, sintesi di vicende architettoniche, mediterranee ed europee”. Va detto al riguardo che le relazioni culturali tra i popoli portano indubbiamente al progresso, quando gli incontri tra gruppi diversi non arrechino devastazioni e arretramenti, ma il progresso spesso avviene anche per le invenzioni di un singolo popolo, per la sua crescita interna. È questo è proprio il caso dell’architettura nuragica, al di là delle relazioni col mondo esterno nel ricevere e nel dare. Quando si parla dei nuraghi e più ampiamente della civiltà nuragica l’enfatizzazione del meticciato è per molti versi fuori luogo perché siamo di fronte a un fenomeno che già destava la meraviglia degli antichi scrittori greci, per l’età del Bronzo un evento unico e straordinario come lo sono le manifestazioni artistiche dell’Egitto dei Faraoni e della Creta minoica. Di certo è innegabile che l’architettura nuragica sia il più importante evento culturale del mondo occidentale prima di Cartagine e di Roma, frutto di un eclatante momento storico dell’isola che per varie ragioni, anche nella stessa Sardegna, si fa fatica a riconoscere. In ogni caso, è pienamente lecito e doveroso che i Sardi vogliano divulgare nel mondo l’idea che la civiltà sarda nell’età del Bronzo era straordinariamente rilevante, come riconobbero già i nostri padri dell’archeologia nuragica Antonio Taramelli (non sardo!), Giovanni Lilliu ed Ercole Contu e come anche, in qualche modo, la stessa Mongiu. Non c’è da meravigliarsi se il mio carissimo amico Pinuccio Sciola, grandissimo scultore che come pochi amava l’isola e che ospitava il mondo a casa sua, si batteva perché l’emblema dei Sardi fosse proprio un nuraghe al posto della bandiera attuale “dei quattro mori decapitati, il simbolo più atroce del razzismo e dell’avversione tra i popoli, come ha messo in evidenza Franciscu Sedda. Personalmente, anch’io, come sardo e come pacifista, preferirei essere rappresentato da quattro nuraghi piuttosto che da quattro teste di mori decapitati che simboleggiano la lotta dei cristiani contro i musulmani.
Non conosco né gli autori né i contenuti della proposta, criticata da Maria Antonietta, di chiedere per legge “ l’incremento dello studio ….di un particolare momento storico e dei suoi manufatti, nella fattispecie i nuraghi” , ma mi pare francamente esagerata la sua domanda retorica “come si fa a trasformarlo (il nuraghe) in una sorta di etnocentrico emblema di sovranismo retrattivo?”. Credo più semplicemente che siamo di fronte a dei Sardi che, a modo loro desiderano che la loro storia e la loro cultura sia riconosciuta nel mondo, con lo stesso spirito dai tanti cittadini di altre nazioni che chiedono che le opere antiche e moderne della loro terra siano considerate degne di far parte del patrimonio universale. Piuttosto, non posso fare a meno di constatare, e mi spiace, che questo concetto di sovranismo retroattivo richiamato da Maria Antonietta ricorda il pensiero isolato di qualche paladino del globalismo meticcio, che ritiene che l’umanità sarà perfetta quando verranno annientate le varietà del mondo. Essi rifiutano l’autodeterminazione dei popoli, accolgono con grande favore le colonizzazioni passate e presenti e, stando al contesto locale, odiano il pensiero che i Sardi abbiano fatto qualcosa di lodevole. Li terrorizza il pensiero che nel periodo neo-eneolitico e nell’età del Bronzo la Sardegna si distinguesse per la sua cultura e il suo ruolo nel Mediterraneo.
In effetti, l’intreccio di relazioni con gli altri popoli e altre culture non solo non deve portare all’autodistruzione e all’alienazione del popolo sardo, ma deve essere lo stimolo per far emergere nei Sardi l’autocoscienza della propria identità, dell’essere il popolo di una terra che si distingue dalle altre per la sua geografia, la sua storia, la sua lingua, uno stimolo per battersi con gli altri popoli contro le ingiustizie e in primo luogo per ribellarsi, con un’incisiva azione corale, al tran tran quotidiano della nostra isola di cui conosciamo bene le cause: le discariche dei veleni dal continente, gli impianti eolici che stanno divorando le terre dei Sardi per quattro soldi -che molti Sardi non hanno e per cui debbono svendere i loro terreni aggravati da tasse-, gli arretratissimi e spesso impossibili trasporti, l’assenza di servizi essenziali nei paesi dell’isola, le servitù militari e così via. Come emerge anche da qualche articolo dei nostri maggiori giornali quotidiani, c’è qualche speranza che la coscienza dei Sardi riprenda la sua dignità e conduca una dura battaglia per distruggere il ponte di veleni costruito tra il Continente e la Sardegna.
In conclusione, una parola sul richiamo finale dell’articolo “alle ferite mortali all’anfiteatro di Cagliari e alla necropoli di Tuvixeddu”. Sono ferite gravissime che si accompagnano da decenni alle numerose mancate azioni delle Amministrazioni e degli Enti preposti alla tutela e alla valorizzazione dell’antica storia di Cagliari. Si sa bene dove sono ubicate fisicamente le fondamenta storiche della capitale dell’isola: spesso si opera come se non esistessero, come se non esistesse il problema della loro conoscenza e valorizzazione. Si opera come se non esistesse neppure il nuraghe di Monte Urpinu che viene sacrificato e ridotto ancor più a brandelli, per un osservatorio di uccelli che poteva essere collocato altrove; certo questi ruderi del nuraghe, che ha il torto di essere stato costruito a Cagliari, non sono molto monumentali e allo stato attuale non facilmente riconoscibili dai profani, ma raccontano una nuova pagina della storia della città, non meno importante di quelle dell’anfiteatro romano e della necropoli punica di Tuvixeddu e mi spiace per chi non è capace di accorgersene e per chi fa finta di non accorgersene.
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Cronaca di una passeggiata con Giovanni Ugas sul sito del nuraghe di Monte Urpinu a Cagliari