Inquiete, il festival femminista che ripensa un'idea di comunità: «Il nostro è un progetto politico»
«I festival sono spazi di partecipazione in cui è possibile costruire un orizzonte comune. Portiamo sul palco un discorso diverso, un immaginario della donna che sia di forza»

Un festival «femminista» e non «al femminile», che mette al centro i temi ma soprattutto le persone, una rassegna che riflette sui concetti di spazio pubblico e comunità, con l’aspirazione di costruire un «orizzonte condiviso».
È appena andata in archivio, a Roma, la quinta edizione di inQuiete - festival di scrittrici, realizzato da Associazione Mia e Libreria di donne Tuba. «Un festival gratuito, in larga parte volontario e politico», dice Barbara Kenny, ideatrice di Inquiete e socia fondatrice di Tuba.
Un festival politico che nasce da quale necessità?
La nostra edizione zero ha raccolto il consenso delle più importanti scrittrici italiane, le giornaliste lo hanno lanciato con grande risalto. È vero che non partivamo da zero, venivamo da dieci anni di attivismo, con un gruppo di lavoro di professioniste nell’organizzazione culturale. Ma è chiaro che qualcosa era nell’aria e noi abbiamo intercettato un desiderio che non era soltanto il nostro. Siamo state un veicolo.
Dopo cinque anni il senso rimane lo stesso?
Nell’anno della prima edizione Michela Murgia e Loredana Lipperini accesero un dibattito sulla presenza delle donne nei festival, su quante vincessero dei premi letterari o semplicemente pubblicassero dei libri. Invito a dare uno sguardo, oggi, ai cataloghi delle case editrici, ma anche ad allargare la riflessione alla società intorno a noi, per capire che nulla o poco è cambiato.
Da che punto di vista?
Prendiamo le ultime elezioni amministrative. Erano in gioco le città più importanti d’Italia e non c’è stata nemmeno una donna eletta sindaca, non una arrivata a un ballottaggio. E quello che succede nella vita politica si riflette nella sfera culturale, nella sfera lavorativa. Si cammina tutti insieme e questa è un cartina di tornasole. Quella che noi portiamo sul palco è la possibilità di un discorso diverso, di un immaginario che sia di forza.
Un cartellone di sole autrici per un pubblico di... ?
Nell’ultima edizione precovid, quella del 2019, uno dei nostri tecnici ci ha detto: “Siete delle genie, questo sembra un festival di nicchia ma non lo è”. Si riferiva al fatto che in Italia chi legge sono per lo più le donne. La nostra è una festa delle lettrici e questo salta all’occhio perché facciamo un festival femminista, ma se vai a qualsiasi evento letterario la presenza femminile è sempre maggioritaria. Questo vuol dire che, con le stesse proporzioni, vengono anche gli uomini a sentire i nostri incontri.
Questo è l’anno del ritorno in presenza, com’è stato ritrovarsi?
È stato bellissimo, gratificante. L’anno scorso, in un’edizione totalmente digitale, sono mancate l’alchimia e la restituzione. Quando viene meno l’ascolto del pubblico cambia cifra il tenore degli incontri. Quest’anno abbiamo avuto un’edizione super intensa anche rispetto a quanto le scrittrici hanno messo in gioco su quel palco.
Durante il festival avete trattato molti temi: la maternità, la sessualità, il desiderio, la violenza. Ma c’è forse un macro tema che li racchiude tutti e che è oggi al centro del dibattito: la lingua.
Se il dibattito sull’inclusività del linguaggio è diventato centrale lo dobbiamo al femminismo. Ma quello che mi ha colpito di questa edizione è una cosa che è successa dietro le quinte: Inquiete è un festival che ha bisogno del lavoro di decine di persone, compreso un gruppo di volontarie e volontari. Mi hanno colpito le loro mail di autocandidatura, in cui si presentavano utilizzando spesso un linguaggio non binario. E parliamo di una fascia d’età compresa tra i 20 e i 30 anni.
Questo significa che la società è più avanti rispetto a chi la governa, o a chi tenta di decifrarla?
Sicuramente c’è già una pratica, c’è una generazione in cui il tentativo di mettere in campo un linguaggio inclusivo non è uno sforzo. Forse anche qui Inquiete ha intercettato qualcosa che era già in essere. Com’è già in essere un altro fenomeno su cui abbiamo lavorato quest’anno.
Quale?
La volontà di fare un festival che non fosse tutto bianco, ma riconoscere che esistono delle voci preziose di scrittrici italiane non bianche, in maniera preponderante nere per quanto riguarda questa edizione, che hanno portato i loro temi: la critica letteraria, il romanzo storico o il razzismo. Un salto che sentivamo necessario.
E anche questo ha a che fare con la vosrta dimensione politica.
Per me essere un festival politico ha a che fare sì con i temi ma anche con le persone, con quello che rappresentano. Quando ti assumi la responsabilità di costruire uno spazio pubblico, devi anche chiederti chi stai portando sul palco e perché.
E voi cosa vi siete chieste?
Ci siamo dette che fare un festival richiede una comunità. C’è un gruppo di quattro persone che è il motore di Inquiete, ma c’è una cipolla che circonda questo gruppo e che è molto stratificata. I festival sono necessariamente espressioni di comunità, soprattutto oggi in cui gli spazi di aggregazione sono sempre meno. Non ci sono più le sezioni dei partiti, è cambiato l’attivismo nei sindacati, persino il ruolo della chiesa. I festival rimangono un grande spazio di partecipazione dove è possibile costruire un orizzonte comune.