La siccità tra le cause del collasso dell'età del Bronzo, la prova in antichissimi frammenti di legno
L'archeologo americano Sturt Manning ha esaminato gli anelli di vecchi ginepri risalenti a oltre tremila anni fa: proverebbero una grave siccità nelle terre ittite

Intorno al 1200 avanti Cristo le civiltà attorno al Mediterraneo crollarono: città intere vennero distrutte o abbandonate, popoli ricchi e fiorenti persero il loro potere e diverse popolazioni ridussero drasticamente il loro numero e l'aspettativa di vita. La maggior parte degli studiosi concorda su una parola sola: collasso. Il mondo allora conosciuto scomparve e la storia dei popoli del Mediterraneo seguì un corso nuovo, una trasformazione profonda che mutò culture, economie e sistemi: Anatolia, Cipro, Egitto, Grecia, Mesopotamia, Egitto e le genti del Mediterraneo occidentale videro scomparire i regni che fino a quel momento erano stati protagonisti di un momento felice dell'Età del Bronzo con economie forti, reti commerciali e innovazioni tecniche e culturali senza precedenti.
I Popoli del Mare e le altre minacce
Da decenni si indagano le cause del collasso della tarda età del Bronzo, ma a oggi pare non esista una spiegazione unica, una causa sola che da Occidente a Oriente provocò la crisi civiltà antichissime: tra le tante teorie, quella legata alle invasioni dei cosiddetti Popoli del Mare, una rete di navigatori che minacciò l'Egitto e gli altri paesi del Mediterraneo citata dalle fonti egizie, o quella che indaga su terremoti e altri fenomeni naturali estremi che avrebbero colpito diversi centri dell'antichità nello stesso momento causando morte e distruzione. Due anni fa il quotidiano Il Post ha dedicato al tema un interessante podcast in quattro puntate, "La fine del Mondo", scritto e narrato da Luca Misculin.
Oggi alla complessa, affascinante ricerca su quegli anni bui si aggiunge un nuovo tassello: pochi giorni fa la rivista Nature ha pubblicato l'articolo dell'archeologo americano Sturt W. Manning dal titolo "Grave siccità pluriennale coincidente con il crollo ittita intorno al 1198-1196 a.C.". Lo studio, pubblicato insieme a Jed P. Sparks, esperto di ecologia e biologia evolutiva, e alle ricercatrici Cindy Kocik e Brita Lorentzenporta, una nuova riflessione sul dibattito con innovative tecniche di analisi sul legno antico.
Un cambiamento climatico inatteso
Secondo l'archeologo americano, che insegna Arte e scienze nell'archeologia classica alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, quegli anni furono caratterizzati da una pesante siccità a cui gli Ittiti, potenza egemone in Anatolia (l'odierna Turchia) per oltre quattro secoli tra il 1600 e il 1200 avanti Cristo, non riuscirono a far fronte. L'agricolturà ne risentì pesantemente, e da qui si generarono carestia, povertà, malattie che indebolirono la popolazione e l'intero sistema politico e militare del regno; la capitale Hattusa venne abbandonata, il sistema amministrativo centrale scomparve, e non si hanno più documenti dopo l'ultimo sovrano Suppiluliuma II che regnò intorno al 1207 avanti Cristo.

Le prove nei ginepri
“Gli studi più recenti sulla caduta degli Ittiti e il più ampio crollo di diverse civiltà della tarda età del bronzo - sottolinea Sturt W. Manning - hanno iniziato a spostare l'interesse dalle teorie su invasori o predoni, terremoti o vari cambiamenti politico-economici come primi motori, e si concentrano su possibili cambiamenti climatici o ambientali”. Se proseguono le ricerche attorno a eventi traumatici come cataclismi o invasioni, diversi progetti si stanno concentrando sul clima. Tra questi l'indagine di Manning sui resti lignei dal sito di Gordion, nell'Anatolia centrale, a circa 230 chilometri da Hattusa: il Midas Mound Tumulus, un tumulo di 53 metri, conteneva una struttura in legno di ginepro, forse una camera funeraria per il padre del leggendario re Mida. Nella struttura sono stati individuati i resti di 18 alberi, alcuni datati al 1200 avanti Cristo. Uno studio specialistico sui microframmenti di legno ha permesso di notare alcuni anelli insolitamente stretti, non collegati a incendi o attacchi di parassiti, che farebbero pensare proprio a un momento di grave siccità durato alcuni anni con conseguenze negative sul raccolto dei cereali, confermato anche dall'analisi sugli isotopi del carbonio che indicano la risposta del legno alla disponibilità di umidità. Non sarebbero bastati silos, riserve d'acqua, dighe e altri sistemi di resistenza all'assenza di piogge: i raccolti andarono perduti, un'intera economia andò in crisi. I sopravvissuti probabilmente migrarono verso altre terre più stabili, esattamente come sta accadendo oggi con popolazioni che si muovono da regioni aride e povere in cerca di condizioni di vita migliori.
Tre anni di siccità spazzarono via un impero di cinque secoli
Il dato degli anelli è stato confrontato con altre informazioni paleoclimatiche e archeologiche dello stesso periodo, con la conferma di almeno tre anni di siccità, tra 1998 e 1996 a.C., in un territorio lontano dal mare e dalle grandi vie di approvigionamento alimentare. “Gran parte del cuore ittita sarebbe stato effettivamente isolato e costretto a sopravvivere con le risorse locali e, di conseguenza, in crisi - afferma Manning - poiché queste si sono progressivamente esaurite durante uno, poi due e infine tre anni consecutivi di grave siccità. Inoltre, prove testuali suggeriscono che i territori circostanti, e in particolare alcuni dei centri marittimi collegati come Ugarit, anche loro in difficoltà, trattenessero possibili spedizioni di grano, esacerbando a loro volta le crisi in Anatolia. I conflitti intra-anatolici potrebbero essere stati stimolati da lotte per le risorse chiave di sussistenza durante e immediatamente dopo questo periodo. Tali circostanze - conclude l'archeologo - avrebbero ulteriormente sottolineato le linee di frattura politiche, economiche e sociali sottostanti all'interno del mondo ittita, e avrebbero anche fornito il contesto per le epidemie”.
La ricerca di Sturt Manning fornisce oggi elementi preziosi per capire cosa accadde oltre tremila anni fa. Ma impone anche una riflessione sull'attualità, su ciò che possiamo fare per affrontare una catastrofe climatica a cui i nostri antenati evidentemente non riuscirono a sopravvivere.