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Cronaca di una passeggiata con Giovanni Ugas sul sito del nuraghe di Monte Urpinu a Cagliari

Ecco perché sono sicuro che qui c'era un maestoso nuraghe e qual era la sua importanza per la città e la Sardegna"

Ignazio Dessi'di Ignazio Dessi'   
Giovanni Ugas a Monte Urpinu (Foto I.D.)
Giovanni Ugas a Monte Urpinu (Foto I.D.)

La curiosità è tanta, ma ho paura di disturbarlo perché lo immagino molto impegnato. Alla fine gli telefono. “Giovanni – gli dico – mi spieghi com’è la storia di questo grandioso nuraghe che tu e Nicola Dessì affermate esistesse sul colle di Monte Urpinu a Cagliari? Le discussioni da voi scatenate sono tante.
“Mi chiedevo perché non mi avessi ancora chiamato – risponde il professore, quello che per me (ma non solo per me) è attualmente il maggior esperto di archeologia della Sardegna nuragica - Perché non ci vediamo di persona, così parliamo meglio”, mi propone.
“Facciamo come al solito? Andiamo al bar di Via Dante? Così, magari, parliamo in sardo, come piace a te. Passo a casa tua a prenderti”.
All’ora concordata, di pomeriggio inoltrato, arrivo in zona. Trovo un parcheggio e mi ci infilo. Gli mando un WatsApp. “Sono sotto. Scendi quando vuoi”.
Qualche minuto e Giovanni Ugas - allievo prediletto di Giovanni Lilliu con trascorsi da docente universitario e Direttore archeologo della Soprintendenza cagliaritana - varca la soglia del palazzo dove abita, esce in strada e si guarda intorno. Io gli sono alle spalle, lo osservo e per un attimo evito di chiamarlo. Osservo la sua nuca canuta, il fisico snello e nerboruto, ancora vitale nonostante l’età che avanza. Fisico e tempra da sardo antico, da Pater familias. Infine lo chiamo. Lui si gira, mi guarda dietro gli occhiali da studioso, e come al solito sorride.
“Ciau su professori”, gli dico. Ci tocchiamo col pugno chiuso, come impone il maledetto covid, poi mandando a quel paese il virus, ci stringiamo la mano. Ci conosciamo da tempo ormai, e ogni volta che lo incontro il piacere è enorme. So che ne uscirò arricchito, con nuove conoscenze e perle di storia sarda, cosa di cui son ghiotto. Ho la sensazione – e so di non sbagliarmi - che anche a lui faccia piacere incontrarmi ogni tanto, che gli piaccia raccontarmi delle sue scoperte e delle sue teorie, decantare la storia millenaria della nostra antica Isola, parlarmi dei progetti che, a dispetto degli anni, conserva nel cassetto. Che percepisca quanto io sia curioso e appassionato. E non delude mai: è una fonte inesauribile di aneddoti, esempi, citazioni elargite con sapienza, con pazienza, senza la preoccupazione di centellinare la trasmissione delle sue enormi conoscenze o di tutelare chissà quale tornaconto culturale, come capita di veder fare. Non è geloso di elargire il suo sapere, gli piace condividerlo, ama spiegare. E non c’è da meravigliarsi: è uno studioso vero, intellettualmente onesto, innamorato sinceramente della cultura e della storia della sua terra. Lontano da meccanismi da business culturale. Un maestro da ascoltare. Distante anni luce da certi personaggi arroccati, rispetto alla storia sarda, su posizioni stantie e sterili, perennemente preoccupati di difendere confini e orticelli. Appartiene a una stirpe ormai rara: quella degli uomini che non hanno come fine arricchirsi e/o far carriera; l’ambizione e la superbia non gli appartengono e preferisce rinunciare alla carriera se deve sacrificare la sua libertà individuale e morale. Le rare personalità della sua stirpe non hanno mai avuto come fine i soldi. Non conosce la gelosia ed è felice per le scoperte altrui. Le sue ricerche e i suoi studi, le pubblicazioni dei suoi lavori, gli allievi da instradare e seguire, rappresentano il vero scopo della sua vita. Il suo appassionato lavoro è costellato di risultati importanti, non sempre compresi e riconosciuti. Penso alla serietà con cui affronta ogni problematica, alla accuratezza con cui documenta ogni sua conclusione o teoria, a come pesa le parole, a come il suo ultimo libro “Shardana e Sardegna”, lavoro basilare per la conoscenza dei Popoli del mare e in particolare degli Shardana da lui identificati nei sardi del tempo dei nuraghi, sia la summa di 30 anni di studi e ricerche intensi, nell’Isola, in Italia e anche all’estero.
“Solito bar?”, gli chiedo cingendogli la spalla con il braccio.
“Dove hai messo la macchina? Pensavo volessi vedere dove sta il famoso nuraghe”, mi dice sornione. “Sempre che tu ne abbia voglia”.
“Scherzi Giovanni, è che non volevo pretendere troppo, darti disturbo. Mi faresti un regalo enorme”. Sorride, come può sorridere chi dava per scontata la risposta.
L’auto non è distante. Ci accomodiamo. Qualche minuto e affrontiamo la salita di Monte Urpinu. Sulla destra ben presto la veduta panoramica. Splendida. Una delle più belle della città di Cagliari.
Superiamo la statua di San Francesco, che tende la mano verso il cielo leggermente nuvoloso di un luminoso pomeriggio di febbraio. Una mano bronzea che sembra invitare a guardare in alto, oltre le cose futili e scontate, al di là di qualsiasi difficoltà o cattiveria.
Giovanni è impaziente di arrivare a destinazione, lo avverto da come si sfrega le mani. Scendiamo dall’auto e subito mi conduce verso un sentiero a ridosso della scarpata protesa verso uno scenario da cartolina, sfavillante di colori. Scavalchiamo una sbarra bassa, buona solo per impedire l’accesso ai veicoli. Si mostra ansioso di spiegarmi la scoperta che lui e il suo allievo Nicola Dessì, ormai quotato archeologo (che non è mio parente, ndr), hanno vidimato. Quella di cui parlano tutte le tv e i giornali locali, schierandosi con i pro, i contro o i “bisogna verificare”.
“Fai delle foto di tutto – mi dice – è importante”.
Come risposta gli mostro lo smartphone che ho in mano, tocco il play e avvio la registrazione audio. Non voglio perdermi nulla di quanto dirà e mi propongo di fare anche dei video.

Resti del nuraghe di Cagliari (Foto I.D.)

Percorsi una decina di metri si intravede ciò che resta di un fortino dell’ultima guerra. Al di sotto, prospicente il sentiero si delinea poi tra la vegetazione un lungo muraglione di pietra.
“Guarda qua – mi dice – questa è la cortina muraria di una fortezza nuragica risalente alla seconda metà del secolo XIV a.C., formata da due fila parallele di grandi massi in calcare, e, in mezzo, il riempimento di piccole pietre legate con argilla, proprio alla tipica maniera nuragica. E lì, più giù nel pendio, resti murari di quella che poteva essere la cinta turrita esterna, l’antemurale. Non c’è dubbio: i resti sono quelli di un grande nuraghe”.
Quanto grande, Giovanni?
“Questo muro è lungo 22 metri. Tu pensa che nella reggia di Barumini il muro del bastione quadrilobato corrispondente non va oltre i 15 metri. Ecco – aggiunge spostandosi veloce – qui all’estremità del muro si vede l’innesto di una delle torri laterali. Su una quota superiore del banco di roccia calcarea si elevava invece la torre centrale del bastione. Purtroppo occorre dire c’era, perché del nuraghe, sul lato Est, non esiste più nulla; tutto è stato divorato dalle cave ma dobbiamo ritenere che in precedenza, dopo la devastazione dei nuraghi avvenuta intorno al 1000 a.C., la fortezza di Monte Urpinu fosse stata smantellata prima nel I Ferro e poi in età punica e romana per utilizzare i massi per nuovi edifici. Il nuraghe doveva essere maestoso e, tenendo presenti le proporzioni, poteva raggiungere in altezza i 25 metri se non oltre”.
Più grande di quello di Barumini, che roba. Certo non mancava la visuale”, gli dico per stuzzicarne ulteriormente l’entusiasmo.
“La posizione è fantastica, altamente strategica – risponde subito – Questa fortezza è la maglia fondamentale del sistema insediativo della piana campidanese e del controllo delle coste del Golfo di Cagliari. Da qui si domina tutto il mare sino alle Coste di Villasimius e di Sarroch sull’altro fronte, il Campidano, le montagne che lo coronano, e dall’alto della torre, si poteva scorgere il Gennargentu innevato. E il nuraghe poteva essere in raccordo con altre torri situate a Sant’Elia o a San Bartolomeo e in Castello per controllare il versante ovest del Golfo di Cagliari e la laguna”.
Mi guardo intorno e mi lascio trascinare dalle sue parole. Sogno ad occhi aperti. Vedo una specie di castello che nulla ha da invidiare a quelli medievali, ma di un paio di millenni prima. Materializzo con lo sguardo della fantasia guerrieri, sacerdoti, uomini, donne e ragazzini con le armature e gli abiti dell’epoca intenti a scrutare la stessa bellezza naturale che mi si para davanti. La vista è magnifica. I colori frastornano i sensi. L’azzurro del cielo, schizzato di nuvole bianche, si unisce col celeste del mare. Poi c’è il verde delle montagne di Sinnai e della Sella del Diavolo. Il rossiccio delle saline, il bluastro plumbeo dello stagno di Molentargius su cui plana dolcemente uno stormo roseo di fenicotteri. Dall’altra parte, oltre il panorama mozzafiato del capoluogo sardo, lo sguardo può spaziare ancora sul mare, sulla laguna di Santa Gilla e le susseguenti pianure, sulle montagne di Capoterra e Pula, verso il Campidano, sui campi coltivati. Una visione che toglie il fiato, da stordimento estetico, paradisiaca.
Intanto Giovanni si inerpica agilmente al di sopra della poderosa muratura residua del bastione con vigore giovanile. “All’altro estremo del muro c’era l’altra torre - mi dice – e al di là, a est del torrione centrale, le altre cortine murarie con le due torri restanti del bastione. Ancora oltre, le torri e i tratti murari intermedi della cinta esterna.
“Obiettano che dalla parte che guarda verso lo stagno di Molentargius non c’è posto per farci stare il resto di una struttura come quella che descrivete tu e Nicola Dessì”, gli sparo, sperando di non urtarlo troppo.
Si gira di scatto e ride. “Certo – spiega con uno sguardo sornione – non c’è ora, ma prima c’era”.
Che vuoi dire?
“Che dove sorge il nuraghe c’è stata un’attività di cava per un periodo di tempo non breve, da accertare con un approfondito studio geologico e morfologico, che ha sbancato la gran parte della sommità della roccia calcarea naturale che doveva formare una sorta di pianoro. Con ciò è andata perduta la gran parte di ciò che restava del nuraghe”.
Poi torna al di sopra del muro rimasto. Punta il dito in giù. “Qui è stata tagliata una delle torri laterali. E’ chiaro che era un nuraghe, ed era davvero imponente”.
“Che importanza ha da un punto di vista archeologico e storico questo ritrovamento?”, gli chiedo.
“Da un punto di vista archeologico ha una importanza immensa – spiega con enfasi - Perché questo nuraghe complesso è l’anello mancante dell’archeologia cagliaritana che abbraccia il periodo prenuragico, con le grotte e domus de janas di San Bartolomeo e Sant’Elia, e le tombe “a forno” eneolitiche di Monte Claro, e poi i notevoli resti della città in età punica e romana e medievale che attestano il ruolo centrale di Cagliari nel panorama sardo della storia antica. Nella sostanza questa fortezza dimostra che già in età nuragica, per ragioni strategiche ed economiche Cagliari, intendendo con questo termine il nuraghe di Monte Urpinu e il suo territorio di pertinenza, era l’insediamento più importante della Sardegna”.
Non c’è da stupirsi – azzardo – vista anche la collocazione geografica della città.
“Certo – risponde lui – l’area di Cagliari in età nuragica poteva contare anche su diversi villaggi, come emerge dai resti abitativi pur sporadici del I Ferro di Bonaria, via Campidano, via Brenta e S. Gilla, oltre che della grotta dei Colombi. È palese che già prima dei domini di Cartagine e di Roma, la città controllava l’ingresso per le principali piane sarde sul mare. Qui approdavano le navi provenienti dalla Sicilia e dalla Grecia e più in generale dall’Est del Mediterraneo, come documentano i manufatti micenei del XV-XII secolo a.C. dei siti prossimi a Cagliari quali Nuraxi Antigori di Sarroch, Bi’e Palma di Selargius, Monte Zara di Monastir e Mitza Purdia di Decimoputzu. Qui si comprende tutto questo. Chi arrivava dal mare dal golfo di Cagliari non sfuggiva a questa strategica residenza di un importantissimo capo tribale. Poi basta guardarsi intorno per capire l’interrelazione esistente con altri nuraghi del Campidano, come il Diana di Quartu o il Cuccuru Nuraxi di Settimo e soprattutto gli altri grandi baluardi di Sant’Uanni di Dolianova e di Casteddu de Fanari di Decimoputzu.
Sul piano storico, va considerato che le fonti della letteratura antica ci indicano la stessa cosa, sia pure con il linguaggio della mitologia. Ci parlano della fondazione di Agryle e di Olbia da parte di Iolao. Agryle è il nome greco di Cagliari, coniato su quello di un demo, cioè di un villaggio, attico ubicato non lontano da Atene. Secondo la tradizione, raccolta da Diodoro Siculo, Iolao avrebbe chiamato in Sardegna il grande architetto Dedalo per costruire i grandi edifici. Cagliari e Olbia ancora oggi sono due punti nevralgici per chi dalla Sardegna viaggia verso il Sud-Est del Mediterraneo e verso il Tirreno. Iolao è riferito dalle dinastie eroiche greche alla Tarda età del Bronzo, intorno al 1300 a.C. ”.
Qui il dato letterario diventa fondamentale, perché testimonia di una cronologia precisa. “E c’è dell’altro – si affretta a dire Ugas - Aristeo sarebbe stato il signore di Cagliari, ovvero il re. Inoltre Aristeo, era anche una divinità legata a tante invenzioni culturali. Aristeo, come Iolao, avrebbe chiamato Dedalo per edificare i nuraghi, e poiché viene attribuito dalle genealogie eroiche greche al sec. XVI, segnala una fase costruttiva del Bronzo medio, quella dei nuraghi arcaici o protonuraghi, proprio come oramai è ben evidenziato dalla ricerca archeologica”.
A quel punto provo – lo confesso – una sorta di fastidio. Che significato ha questa reminiscenza mitologica? Si vuole insinuare che i nuraghi sono stati costruiti da qualcuno venuto da fuori, dai Greci? La solita vecchia storia, quando si tratta di Sardegna.
“Loro volevano che si pensasse proprio questo: tramite Dedalo, Iolao e Aristeo volevano assegnare un’origine greca alla civiltà nuragica, non solo per prendersi i meriti della straordinaria architettura e scultura realizzata all’antica moda degli eroi greci, ma anche per dire, che la Sardegna era stata occupata da loro in precedenza e dunque potevano sempre rivendicarne il possesso. La logica era questa”, risponde l’archeologo.
Dunque, ancora una volta il tentativo di attribuire a popoli stranieri l’antica storia della nostra isola, di renderci subalterni. Sento – lo confesso – un po' l’animo in subbuglio. “Ma tu Giovanni – gli chiedo - da profondo studioso della civiltà nuragica, cosa pensi davvero?
“Ecco qui c’era l’attacco del nuraghe – bisbiglia lui apparentemente estraniato da tutto – e qui sono stati trovati dei cocci ceramici nuragici. Ma anche se non fossero stati trovati – proclama sollevando la voce - per me non cambierebbe niente. E’ evidente che questa muraglia appartiene a un nuraghe, un grande nuraghe, lo indica la struttura edilizia e il suo impianto planimetrico”.
Giovanni – insisto – è nata qui la grande civiltà dei nuraghi?
“Certo che è nata qui – risponde tornando prontamente al filo del discorso - Esiste un legame profondo della cultura nuragica con le precedenti culture archeologiche prenuragiche, benchè si intravvedano impulsi esterni che debbono essere ancora ben focalizzati, anche perché la Sardegna era tutt’altro che isolata nel Mediterraneo, e a seconda dei periodi mutavano le relazioni dominanti nelle varie direzioni dei punti cardinali. Quella grande civiltà nasce qui e in ogni caso qui si evolve con proprie, inconfondibili, peculiari caratteristiche. Comunque, le fonti letterarie che riferiscono dei Greci venuti qui con Dedalo ci forniscono date precise. Ci dicono che la cultura nuragica era imperante ai tempi di Dedalo, Aristeo e Iolao. E’ fondamentale”.
Ma non potrebbe essere che i nuraghi siano più antichi di certe manifestazioni architettoniche della Grecia. Le tholoi nuragiche appaiono molto più arcaiche di quelle delle tombe greche. Non trovi?
“No, o meglio, non è proprio così – chiarisce il mio interlocutore - Si è sempre pensato che i nuraghi derivassero dalle tholoi greche, ma la situazione è complessa. Innanzitutto c’è una profonda differenza sul piano della destinazione d’uso e anche su quello strutturale. Per quanto attiene all’utilizzo in ambito protosardo le tholoi compaiono negli edifici dei vivi, nei nuraghi e nei templi dell’acqua, invece nella Grecia micenea le tholoi sono presenti nell’architettura funeraria. Sul piano strutturale i nuraghi sono edificati sopra il suolo, mentre le tombe a tholos greche sono interrate e dunque hanno meno problemi sul piano della dinamica e della statica. Per questo aspetto le tholoi delle tombe micenee si avvicinano piuttosto a quelle delle camere dei templi a pozzo nuragici, anche se questi sono di dimensioni minori. Diverso è Invece il discorso per quanto attiene l’aspetto formale.
Dunque da dove ha inizio il discorso?
“In Sardegna nei nuraghi arcaici, cioè nei protonuraghi, quali Mandra Antine di Thiesi, Sa Corona di Villagreca-Nuraminis e Su Mulinu di Villanovrafranca, risalenti al periodo XVI- metà XIV sec. a.C. circa, i vani mostrano la pianta ellittica o ovale e presentano la copertura a volta, cioè con la tholos, tronco- ogivale. Solo più tardi, dopo la metà del sec. XIV, i vani dei nuraghi e dei templi dell’acqua hanno il perimetro circolare e mostrano la volta o tholos ogivale. Un po’ quello che è successo nel passaggio dall’arte romanica all’arte gotica quando dall’arco a tutto sesto si passa all’arco acuto, o ogivale. C’è stato dunque un processo di sviluppo interno, nell’Isola, ma si osserva però che allo stesso modo, nelle abitazioni dei villaggi e delle tombe a tholos della Sicilia si coglie un analogo processo evolutivo da ambienti ellittici a circolari e dalla volta tronco ogivale a quella ogivale”.
E cosa significa questo?
“Significa che c’è stato un cammino parallelo, e non si capisce chi ha dato lo spunto iniziale. È evidente in ogni caso, che l’architettura della pietra con la volta ebbe in Sardegna uno sviluppo grandioso, per certi versi senza confronti nel Mediterraneo. Infatti, la Sardegna è l’unico luogo, insieme alla Corsica (che rimane tuttavia marginale) in cui si costruiscono edifici sopra suolo con cupole, le più antiche, non false cupole come qualcuno ancora le chiama. Anche senza chiave di volta, sono cupole, diverse certo e ben più antiche e non è che tutti fossero capaci a costruirle come ha scritto riferendosi ai nuraghi qualche architetto sostenendo che la cupola è un evento quasi naturale, spontaneo.
Invero, in tutti gli altri paesi mediterranei gli edifici con tholoi nell’età del Bronzo sono interrati, salvo qualche eccezione riguardante le gallerie coperte delle fortificazioni (Tirinto, Hattushas), verosimilmente derivate dall’architettura nuragica perché qui si trovano gli esempi più antichi, e negli ingressi delle fortezze, ma mai la volta si riscontra negli edifici circolari. In effetti, l’architettura sarda nuragica, non ha confronti per quanto concerne l’utilizzo della volta negli edifici. Nell’est del Mediterraneo troviamo le torri quadrangolari, quindi con il soffitto piano, non ci sono le tholoi. Ed è da ritenere che derivino dai contatti con i Sardi gli ambienti con il taglio ogivale, che appaiono specie in ambito funerario in Egitto, a Ugarit e in altre regioni del Mediterraneo. Sono i contatti degli Shardana, cioè dei Sardi, che diffondono lo stile, che noi archeologi sardi denominiamo “gotico ante litteram”, nelle fortificazioni e negli edifici idraulici. Basti pensare in particolare al pozzo di Djarlo in Bulgaria. Le cupole soprasuolo sono passate agli Etruschi, ai Romani, e così via, ma tutto nasce dall’architettura sarda. Potremmo dire lo stesso Pantheon, nonostante la sua magnificenza e le diverse soluzioni tecniche adottate ha radici nuragiche. L’architettura e più tardi la scultura protosarda hanno avuto un ruolo importantissimo per lo sviluppo dell’arte, ruolo per lo più non compreso dagli stessi sardi”.
Forse perché gli studiosi su questa lunghezza d’onda, come te, sono ancora pochi.
“Non tutti gli studiosi guardano con attenzione oltre la Sardegna, cioè non guardano la Sardegna dal punto di vista di chi sta fuori dall’isola. Per apprezzare la Sardegna in tutti i suoi aspetti positivi e negativi occorre uscire dall’Isola e vederla dall’esterno con paradigmi di confronto ad ampio raggio. Lo stesso discorso vale per il periodo in cui furono edificati i nuraghi”.
Tutta la situazione della Sardegna, le sue testimonianze archeologiche e letterarie, la posizione geografica, depongono a favore del fatto che l’Isola al tempo dei nuraghi, tra il XVI e il sec. XI e anche dal X al VI secolo a.C., svolse un ruolo primario sul piano culturale, politico e, volenti o nolenti, militare. Perché non ci si vuole arrendere a questa evidenza?
“L’antica Sardegna ha un neo, che è quello dell’uso della scrittura – fa notare Giovanni – ciò deriva dal fatto che nell’isola non vi era un regno unico, un unico potere forte, non c’era un accumulo di beni nelle mani di un re, o di pochi principi in una civiltà di palazzo. Certo, i capi tribù avevano a disposizione grandi ricchezze, un territorio ampio, ma erano in tanti, le ricchezze erano distribuite nel territorio e non c’era la necessità della scrittura. Almeno sino al Bronzo finale, sino alla loro caduta intorno al 1000 a.C.”.
“Benché avessero strette relazioni con altri paesi che conoscevano la scrittura, i capi tribali non avevano la necessità dell’impiego della scrittura per registrare i loro beni materiali e le relazioni con gli altri paesi. Peraltro, nell’isola esistevano le tombe collettive, non individuali, per via del vigente regime matrilineare, diverso da quello dei paesi dell’Est del Mediterraneo e pertanto gli stessi capi non si ponevano il problema di autocelebrarsi singolarmente con la scrittura, come avveniva nei grandi regni dell’Est del Mediterraneo. Dunque i Sardi al tempo dei nuraghi non hanno messo per iscritto i momenti salienti della loro storia, ma ci si può consolare dicendo che in fin dei conti, anche degli altri popoli dell’occidente, come gli Etruschi e i Greci e i Fenici delle colonie, che a tra il sec. VIII e il sec. -VI a.C., usarono la scrittura, non possediamo componimenti di natura letteraria e storica, ma solo iscrizioni funerarie, votive e dediche agli dei.
La scrittura a un certo punto nell’Isola è nata però. Tu stesso parli spesso di molti reperti che lo evidenziano.
“Nel primo Ferro, intorno al 900/800 avanti Cristo, se non già nel Bronzo Finale, dopo la caduta dei nuraghi iniziano ad apparire manufatti con segni di scrittura, ma in Sardegna mancano le tombe del VII- VI secolo a.C. quando in Occidente si diffondono le dediche votive e funerarie. Non possiamo escludere che in futuro con ulteriori ricerche emergano nuove straordinarie scoperte e dunque documenti relativi alla scrittura. La ricerca archeologica deve fare ancora molti passi e negli ultimi cento anni ha già fatto progressi notevolissimi. Guardo anche a me: io ho impiegato 30 anni per capire la realtà dei Popoli del Mare e ancora tanto occorre conoscere della loro storia e in particolare di quella degli Shardana che coinvolge i Sardi”.
Tu basi ciò che dici su prove concrete e testimonianze storico-letterarie classiche, ma anche egizie e di altri paesi mediterranei. Dovrebbero risponderti sul merito.
“Certo, per lo più si risponde in termini generici spesso rifacendosi all’archeologia dell’archeologia, ma è comprensibile perché anche gli altri hanno bisogno di tempo per impadronirsi di una materia complessa. L’importante è sempre il rispetto e la considerazione per chi si impegna negli studi e questo talora manca, mi dispiace. Non mi spaventano le idee diverse ma i comportamenti che nulla hanno a che fare con lo studio e la scienza, talora affiora persino la disonestà intellettuale”.
Ad un certo punto molti potrebbero accorgersi che sei avanti rispetto a loro.
“Se avverrà, sarà semplicemente perché si avrà la consapevolezza che io ho lavorato su quell’argomento più di altri, prima di altri. A parte Nancy K, Sandars, oramai nel lontano 1985 con lo studio The Sea Peoples, nessuno ha affrontato l’argomento dei Popoli del Mare in maniera organica, considerando anche i dati della letteratura antica, quelli archeologici e tenendo presente gli intrecci con gli eventi delle popolazioni del NordAfrica e quelli che portarono alla caduta dei regni micenei. Certo io ho dato maggior risalto alle vicende degli Shardana e alle interrelazioni con la Sardegna, ma semplicemente perché era il cuore della problematica”.
Un tema su cui c’è ancora tanto da dire, da scoprire.
“In effetti, tutto sommato, l’argomento dei Popoli del Mare è un tema ancora in fieri straordinariamente interessante. Nel parlare dei Sardi le fonti letterarie antiche, come mise in evidenzia Massimo Pallottino, affermano ad esempio che essi assediarono Creta ai tempi di Minosse, raccordandoli con l’eroe guerriero Talos. Da dove scaturisce tale notizia? Mica se la inventarono. Che ragione c’era di dire da parte di Simonide di Ceo che i Sardi andavano ad assediare Creta ai tempi di Minosse? E quando Plutarco richiama una tradizione secondo la quale essi si insediarono in Creta e in Laconia, mettendoci dentro anche i Tirreni, ne esce fuori un quadro che corrisponde a quanto sostengono i testi egizi e ugaritici degli Shardana e di altri Popoli del Mare. Che dicono i critici delle mie teorie rispetto a queste cose e ai dati già ben assodati dell’archeologia? Che non c’è alcuna cosa dimostrata, che bisogna ancora fare delle ricerche, e non vogliono ammettere ciò che è già evidente”.
Salvo riservarsi magari di arrivare a poter dire che le prove le hanno trovate loro?
Ride senza contraddirmi. “Intanto siamo qui – osserva - e se qualcuno vuole negare il fatto che i Sardi avevano una grande civiltà capace di influenzare le altre culture del Mediterraneo e di mettere un sigillo sulla sua storia, o perfino che gli Shardana erano i Sardi, ha solo una possibilità: confutare tutto passaggio per passaggio e prova per prova. Ma per adesso nessuno va oltre le obiezioni generiche, logore e vetuste”.
Ma torniamo al nuraghe che un tempo si ergeva maestoso su questo promontorio affacciato sul mare e sul territorio intorno. A quello che ne resta. Cosa dice il mondo accademico? E la Soprintendenza? Cosa succederà ora? C’è chi dice che avete preso una cantonata tu e il tuo allievo Nicola.
“Tutti possono esprimere il loro pensiero, anche quando vedono un inesistente muro di una non ben determinata struttura edilizia settecentesca; io mi avvalgo dalla mia esperienza, oramai di mezzo secolo, sull’architettura dei nuraghi e sarei un pessimo e irresponsabile studioso se affermassi categoricamente ciò che non è”.
Il mondo accademico – penso io – ha già avuto in effetti un illustre pronunciamento: quello di Giovanni Ugas, la massima competenza in questo momento in campo nuragico. Dovrebbe bastare. Eppure si vedono chiusure, tentativi di frenata, perfino dimostrazioni di mala fede, in certi casi. Invece si tratta di verificare, approfondire, rilevare, scavare, confrontarsi. Fare squadra per il bene generale della Sardegna. Ma sembra che questa strada alcuni non la conoscano proprio.
Torniamo a casa e Giovanni non smette un attimo di parlare di quanto sia importante questa scoperta per la storia della nostra “Isola delle torri” e di Cagliari. Ci proponiamo di risentirci presto. Scende, e c’è il tempo di un’ultima battuta che – mi perdonerete – non si può raccontare. Il suo volto pulito si allarga nel solito sorriso, infine ride di gusto addirittura. Ci salutiamo. Ciao Giovanni, a presto. Lo guardo avviarsi sereno verso l’ingresso del suo condominio. Ciao ultimo dei Sardus pater – mi balena in testa – e mentre scompare dietro il portoncino, col suo passo posato e bonario, io penso che la politica, gli interessi di bottega e taluni sentimenti poco nobili non dovrebbero entrarci nulla con la cultura, la ricerca storica ed archeologica e il diritto dei Sardi a conoscere le loro vere radici.


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