Da Omero e Moro a Michela Murgia: ecco perché la morte non è una sconfitta
La morte nella cultura greco latina non era una sconfitta. Un breve excursus storico che ci fa riflettere su quando morire ha acquisito il significato di perdere
Difficile in questi giorni non fermarsi a riflettere sulla morte. Sulla morte come passaggio mentre si è ancora in vita. Michela Murgia la scorsa settimana ci ha fatto un grande dono, ci ha raccontato che il suo tumore è tornato e ha intaccato altri organi oltre i polmoni (come era capitato nel 2014) e per questo, questa volta, guarire sarà impossibile.
Ha ben spiegato la sua amica, matematica e scrittrice, Chiara Valerio: "Con il suo ultimo libro Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi che contiene quella che, mi pare sia, l'unica verità indiscutibile del corpo. E cioè che il corpo muore, la mia amica coraggiosa ci parla della morte, che non è una notizia, non è nemmeno una cosa solenne, è la verità di ciascuno. Così sia".
Eppure la morte, soprattutto chi sceglie di avvisare e di preparare gli altri alla propria dipartita, in Occidente diventa una notizia. Terribile, impronunciabile. Che assurdità! La narrazione del fatto della vita più scontato, cioè quello di smettere di vivere, essendo l'eternità una non verità terrena, in Occidente ci mette a disagio, ci sconvolge, inorridisce, ci imbarazza.
È vietato morire. Soprattutto se non lo si fa sottovoce, senza "disturbare". Forse perché la nostra religione cristiana, quella che ha plasmato la parte del mondo in cui viviamo, ci ha inculcato il concetto della vita eterna. Della resurrezione. Eppure il corpo di Cristo è morto, ce lo ricorda la croce, un simbolo che è un inno pubblico alla sofferenza, mani e piedi inchiodati. Ma a ogni eucarestia torna l'illusione, quella di un'anima sì immortale, ma anche di una carne che non trapassa. La Madonna non muore, Michela Murgia ne parla nel suo saggio, il più bello, Ave Mari, ascende, ma non si decompone. Non c'è una tomba. Non si narra il suo ultimo respiro. Si cristallizza la donna perfetta che però non è più una donna ma una dea. Ma la Madonna prima di essere la madre di Dio era Maria, e Maria aveva un corpo. Un corpo che non ci è stato concesso piangere.
Dunque la vita eterna come vittoria del bene sul male. Ed ecco il binomio morte-sconfitta, come se esistesse la possibilità di vincere. Tutti moriamo prima o poi. Quindi non si capisce come l'eternità-vittoria sia contemplata come opzione.
Eppure è strano. Perché siamo sorti dalle ceneri di Troia. La nostra cultura laica è quella greco romana che non aveva paura di morire. Ettore e Achille la morte l'hanno vissuta assolutamente senza vergogna e pubblicamente. Ci hanno raccontato come si sono preparati a quel momento solenne, senza mai pensare una sola volta che significasse perdere. La perdita era per chi restava come Andromaca, non per chi non c'era più. L'Iliade è un grandioso funerale studiato nei dettagli dai suoi protagonisti. Ed era proprio con la morte che i grandi guerrieri conquistavano la loro pagana vita eterna. Rianendo, perché nessuno ha più osato dimenticarli solo ed esclusivamente grazie a una narrazione.
Ma oggi c'è la grande questione del corpo. Morire con una malattia trasforma le nostre sembianze. Assolutamente da evitare! Non va mostrato il dolore. Chi lo fa è accusato di esibizionismo della sofferenza. Dobbiamo restare belli e belle mentre oltrepassiamo. Ci devono ricordare in grinta, efficienti fino all'ultimo. Forti. Quanto ci hanno insegnato a non essere fragili? Quindi meglio sparire dalla circolazione.
E per ultimo la parola dignità. Morire con dignità sembra significhi morire in solitudine, senza versare lacrime. Nascondersi dalla vita. Ancora una volta, non disturbare.
Perché se parli della tua morte imminente sei un egoista che rattrista chi non ti conosce e dunque avrebbe il diritto di fregarsene dalla tua sorte. Ma ci dimentichiamo che siamo anche figli di Aristotele e che la catarsi era la purificazione dalle proprie passioni che poteva avvenire proprio attraverso la rappresentazione di una tragedia, ovvero della passione altrui.
E poi in ultimo come non pensare alle lettere di Aldo Moro. Bellissime. Struggenti e profondamente educative. Un uomo di fede che ha paura di morire e ci insegna tantissimo di questo ultimo atto che tutti vivremo prima o poi. E' costretto, perché è prigioniero dei terroristi, a viverlo pubblicamente ma non si e non ci risparmia nulla della sua sofferenza. E non perché fosse debole, folle, drogato dai brigatisti, come in tanti affermarono in quei due mesi tragici per la Repubblica
Ma perché lui scelse di fare il miracolo umano più grande: spegnersi eppure continuare a brillare.
"Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo". Chi narra la morte resta per sempre, senza neppure scomodare Dio.
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