"Perdono tutti e a tutti chiedo perdono": Cesare Pavese e quel suicidio polemico che ci ha lasciato orfani
“L'arte di vivere è l'arte di saper credere alle bugie”. Cesare Pavese ha sempre peccato di grande realismo. Un neorealismo che lo consacrerà tra i più grandi letterati di sempre ma che lo condannerà a una morte precoce
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». È il 27 agosto del 1950 quando Cesare Pavese si tolse la vita ingerendo 10 bustine di sonnifero. Ci lasciò orfani del suo immenso talento e straordinaria sensibilità con una solo annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza.
Quando, uno degli esponenti di maggiore rilievo del neorealismo, viene trovato morto in una camera d’albergo di Torino, per molti suoi lettori e lettrici non fu un fulmine a ciel sereno.
Nel suo diario il 18 agosto aveva scritto: "Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò" e anche “La cosa più segretamente temuta accade sempre … Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più".
Una suicidio annunciato, a se stesso di certo, ma forse prevedibile per chi conosceva bene lo scrittore piemontese dall'animo tragico, capace di stupende amicizie ma anche di amori infelici.
Cesare Pavese nasceva sulle Langhe, il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo. Siamo in provincia di Cuneo, lì il padre, che era un cancelliere del tribunale di Torino, aveva una tenuta. Per Pavese quelle Colline saranno sempre casa. La nostalgia che si fa luogo e terra. La morte prematura del padre condizionerà moltissimo il carattere del giovane che non supererà mai del tutto il lutto.
La sua adolescenza è un'epoca in cui si possono trovare molti indizi del suo tragico destino. Perché è in quegli anni che la sua indole disperata si forma. Soprattutto un disperato bisogno d’amore e di approvazione ma anche una grande attrazione per la solitudine. Un rapporto complicato con il femminile.
Studia dai Gesuiti (e l'impronta formativa non passa inosservata) poi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore Augusto Monti che in quegli anni formerà tra i maggiori e più importanti intellettuali torinesi dell'epoca: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila. Tra il 1923 e il 1926 scoprirà Gramsci e Gobetti.
Ma il giovane Pavese al contrario dei suoi coetanei non è attratto dalla lotta politica. Però vuole stare con quei giovani, trova molto formativo e interessante dialogare con loro. Così inizia a seguiri e con loro scoprirà il popolo di Torino: dagli operai, ai venditori ambulanti. Quella gente comune che da borghese non conosceva affatto e che poi diverrà protagonista dei suoi romanzi.
Negli anni dell'Università entra nella sua vita "la donna dalla voce rauca". Con lei Pavese diventa cordiale, umano, affettuoso, per un attimo abbandona l'indole introversa. L'amore lo rende fiducioso, aperto al mondo. Cesare scopre l'amore. Ma per chi l'amore non sa viverlo ma solo idealizzarlo questo può diventare fatale.
Si laurea a soli 22 anni con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman. Inizia così a collaborare con la rivista La cultura e dedicandosi all'insegnamento e alle traduzioni della letteratura inglese e americana.
“Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri”
Negli anni in cui è stato studente a salvarlo dai suoi demoni sarà l'amicizia: la città con il cinema, i caffè, le dispute tra intellettuali lo rinvigoriscono. Ma pochi mesi dopo la laurea nel 1931 tornerà nella sua vilta la morte. Questa volta tocca alla madre, un altro trauma pieno di rimorsi.
“I veri acciacchi dell'età sono i rimorsi”
Ma nello stesso anni avviene anche una cosa importante per la sua carriera letteraria. Verrà stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Pavese avrà il merito di portare in Italia scrittori mai tradotti. Il suo lavoro di traduttore influenzerà tanto e bene la narrativa italiana. E a pensarci, compie un gigante gesto politico di ribellione. Tradurre autori stranieri in piena autarchia, sfidando la retorica nazionalista del fascismo sarà la sua personale e civile rivoluzione culturale. In quei romanzi americani il cittadino fascista suo malgrado, poteva leggere di come era la vita in una grande democrazia come quella americana.
E poi non c'è solo il contenuto ma anche il linguaggio di quegli autori d'oltre oceano a dare nuova linfa a una prosa monotona e roboante. In quei romanzi americani c'era per la prima volta.
E' tra i fondatori della Casa editrice Einaudi. Pavese partecipa felice a questo progetto, è infatti molto amico di Giulio.
Forse questi saranno i suoi anni più lieti. Nonostante la donna dalla voce rauca, una antifascista laureata in matematica lo metta in pericolo. A causa di un loro carteggio anonimo sarà Cesare, scoperto, a finire condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. La grazia dopo un anno gli permetterà di tornare a Torino dove scoprirà che la donna amata si era sposata con un altro. A questa terribile delusione che lo segnerà per sempre è ispirato il suo primo romanzo: Il carcere. Il desiderio del suicidio inizia a farsi strada. Pavese sprofona nella depressione.
Si rinchiude in se stesso ma continua a scrivere: nel 1936 per le edizioni Solaria, esce la prima raccolta di poesie Lavorare stanca. Negli anni '40 torna alla vita e a frequentare gli intellettuali antifascisti della sua città. Ma resta comunquea ai margini del conflitto, non parteciperà né alla guerra né alla Resistenza. A salvarlo dal fronte sarà l'asma.
Ma questo isolamento- tutti gli altri combattevano per qualcosa, lui no- lo farà riprecipitare nel suo buio. Come il Corrado de La casa in collina, si sente inutile e incapace di vivere nella concretezza quotidiana.
Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: "E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?" Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
Il suo bisogno ancestrale di far parte di qualcosa, di non sentirsi solo, lo spinge a iscriversi al Partito comunista, ma la vita che costruisce e disfa, quella aderente alle cose non è per lui. Si accorge di essere un teorico in anni in cui tutti invece si impegnano nella pratica. A ricostruire un Paese. Il suo impegno resterà letterario scrivendo dunque articoli e saggi di ispirazione etico-civile. Metterà anima e corpo in Einaudi. In quegli anni scriverà Dialoghi con Leucò.
“Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome”
A Roma conosce l'attrice Constance Dowling. Si innamora ma anche l'amore quello vissuto non solo scritto non fa per lui. Anche la giovane lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Nel 1949 La bella estate vincerà il premio Strega. Poi arriva La luna e i falò, che avrà un successo enorme ma stanco di quel mestiere di vivere, con lucida consapevolezza del suo gesto meditato forse da sempre, si toglie la vita a soli 42 anni.
“Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi”.
Chissà cosa scriverebbe oggi di questa Italia? 72 anni dopo...
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsenevia. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.”