Tatuaggi: com'è successo che disegnare donne e draghi sulla pelle ha contagiato detenuti, cantanti e modelle
Due libri su una pratica antichissima oggi di moda: David McComb documenta un secolo di tatuaggi con un volume fotografico, Federico Vercellone indaga su cosa significa farsi incidere figure sul corpo

“Io trasgredisco, non ho tatuaggi. Questa è vera trasgressione, fotografate pure”. Così ha esclamato Angelo Duro in qualità di comico alquanto caustico nella seconda serata dell’ultimo Sanremo mostrandosi a torso nudo. Non aveva poi torto: nel tempio più ufficiale della musica italiana tutti i più giovani partecipanti al festival e ospiti come Fedez esibivano una quantità variabile di segni, arabeschi e figure sulla pelle. Volendolo, l’attore toccava una storia particolare: da rivendicazione estetica e sociale di marinai, soldati o detenuti, di ribelli o di frange ai margini della società, il tatuaggio è diventato una moda anche tra le star dello show business e del calcio (vedi Lady Gaga, Angelina Jolie o giocatori come Beckham). Nel 2014 il 20 % della popolazione statunitense risultava tatuata secondo un sondaggio della Fox News. Chissà se ora sono qualche milione in più.
McComb: un secolo di disegni sulla pelle
I tatuaggi hanno tanti risvolti. Se volete una buona panoramica di questa pratica sul corpo dal secolo scorso a oggi, trovate in libreria “100 anni di tattoos. La storia del tatuaggio dal 1914 a oggi” di David McComb (24 Ore Cultura, 285 pagine, 18,90 €): alla terza ristampa, questo volume illustrato documenta il mondo anglosassone e maestri giapponesi attraverso le foto dove le didascalie compongono una storia tanto sfaccettata quanto curiosa tra aghi, inchiostro e fantasia. Un elemento sembra una costante: sentirsi parte di gruppi sociali o ideologici affini. Ma, come potete leggere, qualcosa si è incrinato.
Vercellone: il segno di un’appartenenza
Che il senso di appartenenza sia una componente decisiva lo scrive Federico Vercellone nel libro pubblicato or ora “Filosofia del tatuaggio. Il corpo tra autenticità e contaminazione” (Bollati Boringhieri, 128 pagine, 14,00 €). Il professore di estetica all’università di Torino sintetizza infatti con molta chiarezza quanto accade: “C’è da chiedersi cosa significa modificare il corpo proprio e quanto la pelle stessa – non solo quella reale, ma anche quella "metaforica" – sia estesa. Entriamo qui in un più ampio discorso, che è quello della comunità. La comunità è in questione come sistema di riconoscimento, laddove il corpo segnato evidenzia un’appartenenza; appartenenza che deriva per altro da un rovesciamento, e che da negativa (da simbolo di segregazione: il corpo del carcerato o del folle) può divenire positiva, aprendo lo spazio in direzione di una ribellione. Il corpo segnato diviene così il principio della comunità degli esclusi o di coloro che si autoescludono”. Chiarissimo. Se torniamo a McComb, il discorso si applica ai motociclisti con Harley Davidson, tanto per dire un gruppo citato nel libro.

Se “la tradizione di tatuarsi delle tribù europee, come i Traci, i Galli e i Pitti, era considerata usanza da barbari – ricorda ancora -. Gli antichi Greci e Romani adottarono il linguaggio a scopo punitivo, marchiando a forza gli schiavi disobbedienti e i prigionieri di guerra con simboli umilianti”, alla fine dell’800 l’aristocrazia europea impazziva per tatuarsi qualche lembo di pelle. Qualche anno dopo, mentre “le maggiori potenze erano impegnate a farsi la guerra, i tatuaggi venivano esibiti” da militari e marinai “in segno di patriottismo, come talismani portafortuna e per rendere omaggio alle persone amate che molti soldati forse non avrebbero rivisto”. Disegni di donne, navi, religiosi decoravano braccia, busti, schiene, rinvigorendo una pratica reintrodotta in Europa “verso la fine del Settecento dagli esploratori di ritorno dal Pacifico, cosa che conferì alla body art un profondo significato spirituale e scaramantico per chi viaggiava per mare”, ricorda l’autore mentre donne interamente tatuate facevano sfoggio di sé nei circhi americani e i tatuatori potevano sbizzarrirsi, inventare, richiamare clienti.
Effetti collaterali
MComb ricostruisce con efficacia il percorso a tappe verso la realtà odierna della “body art”, come la chiama anche se la “body art” sarebbe un eterogeneo movimento del ‘900 dove i protagonisti arrivano ad alterare il proprio corpo, non solo la pelle.
Tra periodi di fortuna e altri di declino, l’autore rimarca come i tatuatori abbiano avuto i loro innovatori, coloro che hanno reso il repertorio più fantasioso, al di là dei luoghi comuni: dai draghi, arabeschi, animali, volti e fanciulle nude sul petto ai messaggi tra i detenuti russi fino alla controcultura degli anni ‘60, McComb approda ai nostri anni quando anche modelle e modelli nelle sfilate d’alta moda possono sfoggiare il loro bel tatuaggio senza subire ostracismi e per alzare le proprie quotazioni mediatiche. Con un effetto collaterale che si desume da quanto riportato qui: quel senso di appartenere a una comunità in una società dove tutto diventa mercato alla fin fine viene sfruttato e annacquato.