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Roma in nero: ‘La scuola cattolica’ e ‘La città dei vivi”

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Roma in nero: ‘La scuola cattolica’ e ‘La città dei vivi”

Era il 1988 quando sugli schermi della televisione pubblica esordiva un programma che avrebbe fatto storia, Un giorno in pretura, inizialmente dedicato a piccoli processi. Successivamente ebbe il merito di aprire le porte dei tribunali al grande pubblico in occasione di processi di particolare interesse collettivo. In buona sostanza, fu il primo programma televisivo a catturare l’attenzione degli spettatori sui temi di cronaca giudiziaria, inaugurando un filone destinato a diventare sempre più ricco. Talmente ricco che ad oggi l’offerta in tal senso è enorme, soprattutto se legata a fatti di sangue particolarmente efferati. E’ come se la ricostruzione dei delitti rappresentasse ormai un intrattenimento di massa, peraltro con qualche striatura di morbosità.

D’altra parte il romanzo noir nelle sue varie declinazioni (giallo, thriller, poliziesco) già da tempo ricopriva un ruolo importante nella letteratura di intrattenimento e non (basti pensare a certa produzione di E. A. Poe). La narrativizzazione della realtà attraverso il delitto immaginario ha sempre goduto di particolare fortuna, tant’è che ad oggi la produzione è veramente sterminata.

La letteratura non-fiction

Mentre dunque il mezzo televisivo – legato per sua natura all’attualità – ibrida la propria vocazione spettacolarizzante con la letteratura, incorporando gli strumenti finzionali del romanzo, la letteratura scopre le possibilità dell’incrocio fecondo con la realtà cronachistica. Da questa commistione nasce la letteratura non-fiction, o romanzo-verità, che narra appunto di crimini o eventi tratti dalla cronaca. A questo genere appartengono due romanzi italiani molto interessanti, La scuola cattolica di Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega nel 2016, e il recentissimo La città dei vivi, di Nicola Lagioia (2020).

I casi di Albinati e Lagioia si distinguono da molti illustri predecessori per due caratteristiche peculiari: la prima è che si tratta di scrittori puri, non di giornalisti. In questo sono simili a due successi editoriali del passato, il grandissimo A sangue freddo di Truman Capote e il più recente e famosissimo L’avversario di Emmanuel Carrère.

La seconda è che entrambe le opere – seppure con caratteristiche e toni assai diversi – contemplano in realtà come protagonista principale, non tanto la rispettiva storia criminosa, quanto la città di Roma. Vera star de La città dei vivi, imprescindibile scenario de La scuola cattolica.

La scuola cattolica di Albinati

Romanzo monumentale che consta di quasi 1.300 pagine, in realtà tratta solo marginalmente il delitto del Circeo. Per Albinati, che fu compagno di scuola di un fratello di Angelo Izzo, il delitto è un pretesto per analizzare gli anni che hanno cambiato la storia recente, ovvero quegli anni Settanta in cui la società nel suo complesso conobbe un momento di svolta senza ritorno. Nel bene e nel male.

Per i pochissimi che non ne abbiano mai sentito parlare, il massacro del Circeo consistette nello stupro di due ragazze, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, e nell’omicidio di quest’ultima dopo un giorno di torture. Fu opera di tre giovani simpatizzanti fascisti appartententi alla borghesia romana del Quartiere Trieste, Angelo Izzo, Gianni Guida e Andrea Ghira.

Il romanzo di Albinati è davvero uno straordinario strumento per comprendere alcuni dei fenomeni che tuttora sottendono la nostra società (il ruolo declinante della borghesia, la crisi delle ideologie, la rivoluzione sessuale e i conflitti di genere, la diffusione della droga), benché in maniera ormai quasi cauterizzata. Questo è il suo merito principale.

Gli anni ’70

Perché gli anni Settanta hanno costituito uno spartiacque tra la storia di prima e la storia di adesso. Ma gli eventi che li hanno caratterizzati non sono fenomeni causali, né plausibili oggetti di idealizzazione (“Ah, gli anni Settanta!”). Albinati tenta, in un flusso di autocoscienza che suona come autobiografico, di spingersi oltre gli eventi. L’intento è restituirci una sua visione dei fatti che ci spieghi perché siamo arrivati a quel punto.

L’autore e i suoi compagni, rampolli di una borghesia ricca e indaffarata, portatrice di idee di sviluppo ma anche di resistenza all’innovazione, sperimentano una condizione scolastica di separazione sessuale. Sono infatti tutti alunni di una prestigiosa scuola privata che accettava solo elementi di sesso maschile, l’istituto San Leone Magno, situato appunto nel Quartiere Trieste. Gli impatti di una logica di apartheid dell’elemento femminile in una delicatissima fase dello sviluppo del giovane maschio sono sapientemente analizzati da Albinati. Alcune pagine sulla psicologia maschile e sulle origini delle ancora attuali problematiche relazionali tra sessi sono veramente illuminanti.

La famiglia

Numerose pagine sono dedicate dall’autore anche all’istituzione della famiglia, travolta dal nuovo anelito alla libertà, in corsa ansimante tra l’esigenza di difesa dello status sociale e la percezione dell’inevitabilità del cambiamento. Questi ragazzi borghesi cui si riserva la migliore educazione vagano, maschi e femmine, confusi tra le proprie insicurezze. Subiscono il dominio delle nuove mode, del consumismo, le lusinghe politiche, la declinante autorità parentale, il terrore ambivalente dell’omosessualità, l’ossessione del sesso, la droga. A cui si aggiungono le peculiarità dell’educazione cattolica, con tutte le sue irrisolte ambiguità, la detonante miscela di lassismo e severità e ipocrisia come strumento di educazione alla vita.

Edorardo Albinati

Le radici del male

Il delitto del Circeo appare tuttavia in questo romanzo anche come pretesto per interrogarsi sulle ragioni e le radici del male. L’appartenenza a una medesima classe sociale, la frequentazione di uno stesso ambiente possono bastare a fare potenzialmente di quei soggetti dei potenziali assassini? La scuola dei preti, il quartiere fighetto, le famiglie benestanti sono elementi abilitanti per il reato, per la violenza, per lo stupro, per l’assassinio? Albinati sembra adombrare che sia labile, risultato di scarti minimi, il percorso che separa un giovanotto borghese come tanti altri dal destino di un suo coetaneo che diventa stupratore, e assassino.

Nicola Lagioia

La città dei vivi di Lagioia

Da questo punto di vista parte anche la vicenda raccontata da Nicola Lagioia nel suo intensissimo e potentissimo La città dei vivi. La storia è nota, si tratta della ricostruzione dell’agghiacciante delitto Varani, consumato in un quartiere periferico di Roma nel marzo 2016, per mano di due ragazzi di buona famiglia. Eppure quei due ragazzi “normali” hanno commesso un omicidio tra i più atroci e apparentemente insensati degli ultimi tempi.

I due assassini, Manuel Foffo e Marco Prato, quest’ultimo successivamente suicida in carcere, in preda all’alcool, alla droga e a istinti sadici attirarono la vittima Luca Varani nell’appartamento di Foffo con un pretesto. Lo drogarono e lo uccisero selvaggiamente a coltellate, dopo atroci torture.

La narrazione del caso operata da Lagioia è estremamente coinvolgente, corredata di elementi tratti dalle carte processuali, strutturata in maniera originale. L’autore ci porta con sé nella sua propria discesa verso gli inferi dell’animo umano. Ci accompagna con delicatezza attraverso il dipanarsi degli eventi, senza la brutalità che spesso contraddistingue il giornalismo, ma senza risparmiarci l’inevitabile climax. La notte di follia durante la quale trovò la morte Luca Varani.

Come Albinati, anche Lagioia, analogamente a Capote, si interroga sulla tenuità del confine tra bene e male, e insinua in noi il sospetto sulla labilità della condizione umana, su quanto possa essere facile, in certe condizioni di difficoltà, sfuggire al proprio senso di sé, abbandonarsi all’irresponsabilità, ottundendo la vigilanza.

Roma in nero

In analogia con il Carrère de L’avversario (qui trovate la nostra recensione), Lagioia rivela come alcuni eventi del proprio passato l’abbiano spinto ad interrogarsi quasi ossessivamente su questo delitto. Un delitto commesso da gente normale, che vive in un contesto normale, anzi – come nel caso de La scuola cattolica – addirittura privilegiato. Nessuno dei due romanzi riesce o vuole davvero fornire una risposta. Se non – forse – che due delitti compiuti a quasi cinquant’anni di distanza sono profondamente radicati in alcune realtà specifiche del contesto romano.

Come la vicenda del delitto del Circeo non è – secondo Albinati – comprensibile se non inquadrata nel borghesissimo Quartiere Trieste di una Roma ancora pretaiola di metà anni Settanta, così il delitto Varani non avrebbe quasi senso se disgiunto dal contesto della Città Eterna, dove “Ogni cosa era sospesa tra armonia e disordine, bellezza e noncuranza, socialità e sfacelo”.

Lagioia la descrive come una città in disgregazione, invivibile.

“Roma è una città che non produce più niente, (…) non c’è cultura d’impresa, l’economia è parassitaria, il turismo è di terz’ordine. I ministeri, il Vaticano, la RAI, i tribunali… ecco di cos’è fatta Roma, una città che produce ormai solo potere, (…) il tutto senza mai un progresso, è normale che la gente poi impazzisce”.

Eppure Nicola Lagioa, trasferitosi a Torino proprio per insofferenza al degrado romano, racconta di esserci tornato dopo poco, incapace di vivere lontano dal fascino ambiguo che la splendida Città Eterna continua a emanare. Perché “ci sono le città dei vivi, popolate da morti. E poi ci sono le città dei morti, le uniche dove la vita abbia ancora un senso”.  A Roma si addice il nero.

 

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