Il regista Pietro Marcello e Maurizio Baucci, hanno vinto il David di Donatello per la miglior sceneggiatura non originale
Martin Eden è un film di fiction che si muove sul confine con il documentario. Del resto Pietro Marcello è un esperto navigatore di questo genere e già con la Bocca del Lupo e Il silenzio di Pelešjan aveva solcato il mare magnum delle immagini d’archivio.
Il film Martin Eden porta quasi lo stesso nome di altri “Martin Eden” (anche se in questo caso Eden si pronuncia all’italiana) e del resto non è la prima volta che questo personaggio arriva sullo schermo. Solo cinque anni dopo l’uscita del libro, nel 1914, Martin era arrivato sullo schermo grazie a Hobart Bosworth, all’epoca del cinema muto.
Nel 1942 The Adventures of Martin Eden con Glenn Ford ridà luce al personaggio che appare nuovamente nel 1979 in una miniserie con la regia di Giacomo Battiato. Dopodiché Martin torna negli abissi e viene ripescato recentemente da Pietro Marcello.
La parabola storica del personaggio si può riassumere come il percorso di ascesa e poi declino di un talento letterario. In molti sostengono, inoltre, che la vita di Martin sia una trasfigurazione autobiografica di Jack London, l’autore del romanzo Martin Eden. Venendo al film che ha riscosso successi vincendo Coppa Volpi al 76° festival di Venezia per il miglior attore con Luca Marinelli e recentemente il David di Donatello 2020 come migliore sceneggiatura adattata, credo avrebbe meritato anche il premio per il miglior montaggio.
Alcuni aspetti salienti
Il film si muove nello spazio-tempo come in un flusso di memoria, senza necessariamente spiegare dove e quando succede quello che succede. L’ordine cronologico sembra prevalere, ma non è così. Il film oltretutto non ha necessità di rimanere fedele all’opera che viene traslata a Napoli, in un periodo storico indefinito che vuole rappresentare brevemente l’arco novecentesco.
La sorpresa più stupefacente del film sta nell’evidente utilizzo (e riutilizzo) delle immagini di repertorio, perse nel tempo e adesso ritrovate, custodite nelle cineteche, attraverso una ricerca raffinata e attenta. Le ricercatrici si sono mosse nei fondali degli archivi, e sono riuscite a riportare a galla dei preziosi squarci di spazio/tempo che incastonati, come gioielli, donano preziosità al film.
Glenn Ford in The Adventures of Martin Eden, 1942L’immagine del veliero che affonda, ad esempio, è un controtipo positivo del 1914, conservato in Germania, ri-scansionato dalla cineteca di Bologna e riportato agli antichi fasti, una sorta di cristallo di tempo (per dirla alla Deleuze-Guattari), recuperato nel suo splendore originale. La nave che affonda è una splendida immagine simbolica che rappresenta, o potrebbe rappresentare, l’umore del protagonista e il senso di fallimento, una metonimia o similitudine prendendo categorie in prestito al linguaggio verbale: è difficile dare un nome scientifico esatto a quello che accade quando un’immagine si accosta ad un’altra come accade nei film.
Le immagini d’archivio
Luca Marinelli è Martin Eden nel film omonimoIl montaggio ha saputo utilizzare le immagini d’archivio con sapienza. Ad esempio la coppia di ragazzini che ballano nei bar napoletani degli anni’80 – un fortunatissimo ritrovamento d’archivio 16mm – entrano ed escono dalla narrazione del film in modo così naturale (perché il film ti ha ormai abituato a questa cadenza) che non ci si pone la domanda su chi siano, da dove vengano e perché siano lì.
Il montaggio è in sostanza la parte più sorprendente del film. Attingere agli archivi ha permesso di costruire quella che con Pasolini potremmo chiamare una soggettiva libera indiretta.
A differenza di quanto accade in genere nei classici documentari storici d’archivio, dove troviamo testoni mussoliniani e baffetti alla Chaplin e dove le immagini servono per indicare concretamente la storia, qui l’irruzione delle immagini di repertorio nel racconto non avviene in maniera meccanica. Solo alcune volte queste servono per contestualizzare l’ambiente, come avviene nel caso dei fotogrammi dei bassi napoletani del ’60/70 (forse archivio Luce), oppure delle straordinarie immagini di emigranti dell’Aamod, che regalano emozioni provenienti da un altro pianeta, ma che si sposano bene con le atmosfere ricreate.
Una dimensione poetica
Il riutilizzo delle immagini serve in questo film a emozionare, inserendo qualcosa che viene da un passato remoto e che da solo conferisce una dimensione ulteriore alla lettura del film.
Il footage, il repertorio, nel film viaggia in una dimensione poetica. Edoardo Sanguineti – giusto per tornare nei territori della poesia, quella vera – riconosceva nel montaggio un meccanismo costruttivo che va molto al di là del cinematografo, perché investe praticamente qualsiasi comunicazione intersoggettiva.
Le pratiche di détournement (estrapolazione), found footage, remix e quant’altro, pensate ed elaborate nel ‘900, trovano nel film un riscontro in una naturale fusione di orizzonti, dove il senso non è mai definito ma rimanda sempre all’interpretazione, dove lo spettatore insieme all’autore contribuisce a creare il senso dell’opera.
Martin Eden Remix di Danilo Torre
Il concetto di autore in questo film si espande: da Pietro Marcello passa a Jack London e a tutti gli altri autori che volontariamente o involontariamente hanno contribuito alla realizzazione del film, come anche: i letterati citati, gli autori delle musiche non originali e gli autori delle immagini d’archivio.
In quest’ultimo caso “autori” intesi nel senso più antico del termine, ovvero testimoni di quello che filmavano senza ovviamente avere la più recondita idea che molti anni dopo quei frammenti di luce sarebbero entrati di diritto nel film di Pietro Marcello.
Martin Eden è un uomo in rivolta contro le strutture sociali, accusato di essere incomprensibile dagli accademici, si rifiuta di adottare un linguaggio chiaro e preferisce un pensiero poetante. Nella prima scena del film si vede un Martin Eden consumato che registra su un nastro magnetico la frase: “Chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà”, una citazione da Stig Dagerman. Da qui parte una lunga sequenza di immagini d’archivio. Con questo incipit il film getta un amo allo spettatore, come a dire: questo è un film sul linguaggio che però ha come sfondo la storia di un uomo, di un secolo, una storia d’amore insomma.
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