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La letteratura è malata: ha l’autofiction

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La letteratura è malata: ha l’autofiction

Lo scrittore parla di se stesso, si accomoda nel suo romanzo come protagonista. Mescola la propria biografia a ciò che racconta. Entra nel suo scritto con nome, cognome, indirizzo. Si aggira per il libro e rivela gli affari propri senza nessun filtro. Non fa neanche lo sforzo di camuffarsi un po’.  È l’autofiction, la letteratura concentrata sul proprio ombelico.

Secondo Paolo Nicoletti Altimari l’autofiction è la malattia del secolo. Gli chiedo se la colpa è di Emmanuel Carrère.

“Lui l’ha sistematizzata. E poi dipende sempre dallo scrittore. Io ad esempio i romanzi della Cusk li trovo stupendi. Mentre Knausgård dal secondo libro mi è sembrato irritante. Più che altro quasi voyeuristico. Però riconosco che la capacità di rivelarsi in quel modo ha una potenza assolutamente nuova. Certo sei volumi di autobiografia a quarant’anni è un po’ troppo”.

Karl Ove Knausgård

Gli scrittori che praticano l’autofiction sono talmente tanti che è difficile elencarli. Tra i più citati c’è appunto Emmanuel Carrère i cui libri sono un ibrido fra narrativa, saggistica e autobiografia in cui tira in ballo amici, mogli, ex mogli e così via. Poi c’è il norvegese Karl Ove Knausgård che ha scritto la sua autobiografia in sei volumi: più di 3000 pagine di confessioni intime in cui descrive tutto, anche quante volte viene messo il bollitore sul gas. Oltre alla vita della sua famiglia, sotto al microscopio c’è anche quella di amici e conoscenti.

Invenzione e immaginazione

Chi invece l’autofiction non la digerisce è Johnatan Franzen che nel suo ultimo libro La fine della fine della terra spara contro la cultura dei social che influenza anche la letteratura: “L’assunto su cui si fondano i social media è che anche la più piccola micronarrazione soggettiva meriti non solo un’annotazione privata, come in un diario, ma una condivisione con altra gente”.

Quindi continua nel capitolo: “Scrivere saggi in tempi bui”.

Rachel Cusk

Rachel Cusk e Carl Knausgård hanno portato a un nuovo livello il metodo della testimonianza referenziale in prima persona”. Loro “vi diranno che immaginazione e invenzione sono artifici superati”.

“Oggi la questione del “mi piace”, che privilegia implicitamente i sentimenti personali del recensore, è diventata un elemento chiave del giudizio critico”.

La logica dei like è quella dell’intolleranza che domina i social, i cui algoritmi ci spingono verso tutto ciò con cui siamo d’accordo e dove le voci anticonformiste tacciono: “dove da qualunque parte stiate sentirete di avere assolutamente ragione a odiare ciò che odiate”.

Black Mirror, l’episodio “Caduta libera” porta alle estreme conseguenze la logica dei like

“Mentre la letteratura al suo meglio”, scrive Franzen, “è altro e ci invita a chiederci se per caso non abbiamo un po’ torto, o addirittura completamente torto”.

Se la logica dei like porta a dividersi in fazioni e al timore di qualsiasi opinione diversa, al contrario la letteratura instaura un dialogo con tutte le voci più estreme e contraddittorie. Sviluppa strumenti di critica e autocritica che richiedono sfumature e profondità estranee al “mi piace” e “non mi piace”, o alla primitiva contrapposizione antropologica amici-nemici.

Johnatan Franzen

Non è una novità degli anni Duemila che l’autore diventi uno dei personaggi della storia che racconta. Giulio Cesare scrisse il De bello Gallico, ma almeno aveva la conquista della Gallia da raccontare, inclusi usi e costumi delle tribù barbariche.

Certo si scrive e si deve sempre scrivere di ciò che si conosce, sostiene Flannery OConnor, ma per farlo “ci vuole una storia con dimensioni mitiche, una storia che appartenga a tutti”. Addirittura D’Annunzio teorizzava: “Fare della propria vita un’opera d’arte”. Un principio che venne pienamente adottato da Curzio Malaparte, il quale sta nella sua Pelle come narratore e protagonista.

Villa Malaparte a Capri

Alla fine quello che conta è sempre la qualità. Non a caso Paul Valery sosteneva che c’è solo un genere che non si può accettare ed è il genere noioso. Va bene, ma in questa sovrabbondanza di scritture, si tende a perdere di vista che una cosa non è interessante solo perché è accaduta a me.

La scorsa estate al festival Letterature, nella incantevole Basilica di Massenzio, Marco Missiroli ci ha raccontato delle circostanze in cui è nato il suo romanzo, candidato al Premio Strega. Una sera sua moglie è tornata a casa dopo aver fatto un massaggio con un fisioterapista e gliel’ha raccontato dettagliatamente. Allora, per la prima volta lui si è posto il problema della Fedeltà (il titolo del romanzo). Sì, ma a noi che ce ne importa?

C’è “Un profluvio di cronache dalla depressione, dalla paternità, dalla malattia. Storie spesso definite urgenti” in cui ci si dimentica che “non è sufficiente soffrire per poter romanzare”.

Così scrive il giornalista e scrittore Cristiano De Majo che continua:

“È stato il decennio dell’io e della prospettiva personale” in cui la realtà cannibale ha mangiato la letteratura, tanto che “il passaggio dall’una all’altra si è fatto sempre più sottile”. Talmente sottile che ci si chiede che cosa trasformi l’esperienza in arte.

Le vite degli altri

Emmanuel Carrère

Se la verità sta nascosta nell’arte e nell’invenzione, l’autofiction sembra piuttosto una resa dei conti. Abbiamo il diritto di prendere pezzi di vita di mogli, mariti, figli, amici, e come foto scattate a loro insaputa nell’intimità, metterli a disposizione di tutti? Non c’è il rischio che si arrabbino? Anche perché quando si parla di qualcuno in un libro – anche se se ne parla bene – nessuno si riconosce mai nella descrizione dell’autore. Lo ha chiesto a Emmanuel Carrère, Nicola Lagioia: “Le è mai successo che qualcuno si sia arrabbiato?”

“Sì, mi è successo una volta” risponde Carrère. “Quando uno scrive dei libri in cui mette in scena la propria vita, penso che abbia il diritto di raccontare di se stesso tutto quello che vuole. Ma il problema sono gli altri”.

Poi racconta che c’è stato un solo romanzo che ha scritto senza sottometterlo al giudizio delle persone coinvolte e quindi hanno reagito molto male.

“Il romanzo è La vita come un romanzo russo e riguardava mia madre e la mia compagna dell’epoca. Non posso rimpiangere di averlo fatto perché per me è stato molto salutare e d’altro canto … Io non credo affatto che la posizione di scrittore autorizzi a scrivere qualsiasi cosa sulle persone, a offenderle, a ferirle. È una regola che ho trasgredito una volta e spero di non doverlo rifare”.

Per questo il libro successivo, Vite che non sono la mia, lo ha fatto prima leggere a tutte le persone di cui trattava, dicendo che avrebbe cambiato quello che gli avrebbero chiesto.

Eshkol Nevo

Stessa cosa è successa a Eshkol Nevo e la racconta nel romanzo L’ultima intervista. La figlia prediletta, con la quale aveva un rapporto confidenziale, non vuole più saperne di lui, è andata via di casa e si è rifugiata in un kibbutz perché lui ha raccontato parte della sua vita in un romanzo, senza dirle niente. Ma com’è potuto accadere che siamo passati da anni di assoluta discrezione e riservatezza a uno sfrenato esibizionismo? Prima non parlare di sé era motivo di fascino. Si diceva il minimo indispensabile. La privacy era un giardino privato da proteggere dagli sguardi indiscreti, mentre oggi trionfano esibizionismo e voyerismo.

Il culto dell’autenticità

Daniele Giglioli, professore di Letterature Comparate all’Università di Bergamo così riflette sul rapporto fra letteratura e identità:

“Noi abbiamo il culto dell’autenticità che ci porta ad erigere come valore l’idea che il massimo della vita sia essere se stessi. Io credo che essere se stessi sia un obiettivo estremamente scadente, sarebbe molto meglio essere qualcosa di più, qualcosa di altro, diventare altri. Questa è una delle funzioni della letteratura… compito della letteratura è portartici fuori da noi”.

Oggi però, dice Giglioli, c’è un sospetto nei confronti della fiction, per cui ci si chiede: “Chi ti autorizza a parlare se la tua non è una storia vera?”. La soluzione è rispondere: “Io c’ero”. Ma non ci si limita a raccontare la storia di cui si è stati testimoni; la vita dell’autore prende il sopravvento e… che noia! Ecco cosa pensa Carrère di Knausgård: “L’ho letto, ho letto La mia lotta. Assolutamente affascinante, a tratti tremendamente noiosa”.

Se l’arte è la vita senza le pause noiose, non sarà che è proprio in quelle pause che si annida il racconto autobiografico? Per carità, tutti hanno il diritto di raccontare la propria storia, così come tutti hanno il diritto di cantare, anche gli stonati. Vorrei concludere con quanto mi ha detto Guido Barlozzetti:

“La letteratura non è uno sfogatoio personale. Tutti possono scrivere, tutti devono scrivere, ma non tutti sono scrittori. La scrittura è un rischio. È un viaggio in un territorio sconosciuto e se ti affidi al tuo ego, al tuo sé, non hai nulla da scoprire ma cerchi solo consolazione, conforto, consenso. È accaduto anche per il cinema italiano. Abbiamo assistito ad anni di lacrime nel salotto. Basta!”

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