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Io Pasolini lo conoscevo bene. L'ultima lettera d'amore, rabbia e ossessione di Walter per Pier Paolo

Siti è il più grande conoscitore di PPP, lo ha studiato per 50 anni. Oggi per Rizzoli prova a chiudere il cerchio con "Quindici riprese" dove in un corpo a corpo sul ring fa i conti non solo con un'icona ma con un uomo

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
Io Pasolini lo conoscevo bene. L'ultima lettera d'amore, rabbia e ossessione di Walter per Pier Paolo

Non è solo l'esatto sapere dell'opera omnia (ne ha scritto per i Meridiani dedicando a Pasolini 15mila pagine), ma anche i particolari, finanche una lettera di risposta a un lettore, pubblicata sul quotidiano Il Tempo, che è un inno agli impulsi primordiali, alle stagioni. C'è l'ossessione, certo, e per sopravvivere, inevitabile anche la presa di distanza, a volte il muro posto tra sé e l'oggetto della suprema attenzione. Eppure nessuno come Walter Siti ama Pier Paolo Pasolini. Con un amore disperato, sacro e sacrilego, e grandioso. Che contiene tutto e il suo contrario. Come accade nel nostro opaco quotidiano sentimentale, oltre la letteratura. Walter Siti è un gigante ombroso, uno scrittore importante, un uomo e un intellettuale complicato, ma autentico, così autentico che a volte fa male.
Di tutti i libri scritti in questo centenario pasoliniano, alcuni palpitanti ed emotivi, belli e struggenti, questo di Siti è l'unico così feroce, accurato, importante, testimoniale, da rendersi indispensabile. Il volume raccoglie finalmente i suoi saggi pasoliniani, dal 1972 a oggi, con scritti ad ampio raggio e altri più specifici o occasionali. Si intitola: Quindici riprese, sottotitolo Cinquantanni di studi su Pasolini (Rizzoli, euro 20), sono oltre 400 pagine, colme di rimandi, sottotesti, riferimenti bibliografici. Un'opera che freme tanto è densa, e che chissà che dolore sarò costato all'autore nei tagli, nel sottaciuto, nelle cesure, nella sintesi della passione.


Le quindici riprese sono quelle del pugilato, il corpo a corpo del ring, e dunque per rimando il "combattimento" tra l'autore e il suo contraltare, l'altro da sé, il demone e l'angelo nudo, le voglie e la sacralità, il blasfemo e la preghiera. In copertina lo scrittore modenese ha voluto l'elaborazione grafica di un frame dal film "Il Gobbo" di Lizzani dovo PPP interpretava la parte di Learco. E' armato. E quindi in qualche modo invincibile (forse ha anche pallottole d'oro: il dio dei coatti). 

Walter Siti è un letterato importante, vincitore dello Strega nel 2013 con l'amarissimo "Resistere non serve a niente". E' un personaggio scomodo, animato da una purezza dura, l'unico vero indignato nello stagno fermo delle buone maniere dell'editoria contemporanea: i premi, le pacche sulle spalle, le conventicole. In "Contro l'impegno", pamphlet dello scorso anno, Siti ribalta l'idea della funzione pedagogica, terapeutica della letteratura che «combatte l’infelicità», o «coltiva l’empatia», analizza i contemporanei scrittori di successo e li sprona a non nuotare in superficie, ma ad annaspare anche nel dubbio, nel controverso.

Anche per questo, per questa passione nei confronti della complessità, Siti ha scelto di studiare Pasolini: dalla tesi di laurea al lavoro mastodontico per i Meridiani, il suo è un costante setacciare, interrogarsi, interrogare l'altro da sé. Guardare negli occhi il fantasma, farci a botte, farci pace. Non è solo l'omosessualità il punto di contatto tra i due, forse non è neppure l'interesse colto, la lingua, la forma. C'è di più ed oltre: una coazione emotiva, un morbo da coltivare. Ogni tanto Siti sbotta, dice oh basta ancora Pasolini, poi resta nel solco, lo attraversa, lo ara, testimone materico nel tempo della memoria a intermittenza, nella tragedicommedia socializzata, nella parentesi anniversale. Siti ama il poeta Pasolini soprattutto e ne detesta le umane cadute di stile, così terrene, terrigne. Ne detesta i piccoli vizi: il narcisismo, la foga nel trasformarsi in oggetto di controversia, i limiti inammissibili (che c'erano, ci sono). Sa le peristalsi dell'autore celebrato senza santificarlo, le draga, comunque non riesce a farne a meno, non può, è il vizio della parola che si fa carne, dell'immagine che tramuta in sangue.

Siti ama il Pier Paolo poeta, il giovanotto che è stato, il bambino talentuoso, l'eterno Peter Pan. Ama la vitalità sfacciata, l'ingordigia con cui Pasolini celebrava il sole, la natura, l'aria, una mela rubata da un albero. Ama il Pier Paolo che pensava di sovvertire ogni regola, di poter riscrivere ogni grammatica: dal cinema alla letteratura, dal sesso all'invettiva civile: il destrurattore di ogni ring. Lo definisce "lui", nessun altro.

Era il 2015 quando Siti scriveva: "Ho lottato con Pasolini da quand’ero ragazzo, ne sono stato sedotto e respinto, ancora adesso ho l’impressione che con le sue mani di morto non voglia lasciarmi andare. Forse come curatore avrei dovuto nasconderlo, ma non ne vedevo la necessità e mi sembrava anche disonesto. Pensando al suo modo di essere omosessuale, al suo bisogno quasi esclusivo di far l’amore con ragazzi non-omosessuali, sento salire un dolore violento, una voglia di gridare «no», un’estraneità che si tramuta in rabbia, pensando alla sua vita, tutta giocata sull’eccezione, mi scatta un’ansia di esaltare la mediocrità, di lodare la nobiltà del compromesso, del grigiore, del tirare-la-carretta. La mia impotenza contro la sua onnipotenza, certo. Ambivalenza, però, significa appunto ambivalenza: scrivo davvero così male da non aver lasciato intravedere (...) tutta l’invidia, e quindi l’ammirazione, per la sua leggerezza, per la sua vitalità, per il suo coraggio?"

E' una vivisizione lenta, compulsiva, durata 50 anni. Ancora nel 2015 Siti scrive: "Insisto che il bisogno pasoliniano di travalicare i limiti della forma, di privilegiare il laboratorio sul prodotto finito, non è affatto localizzabile nell’ultima parte della sua produzione ma investe l’intero suo percorso creativo (e credo di averlo anche dimostrato), nell’ultimo periodo lo ha teorizzato, e non è nemmeno detto che sia stato un bene. Quel che mi ha sempre affascinato, di questo suo fare, è il corpo a corpo tra il dolore e la forma, tra l’immensità e la stupida tirannia del desiderio e la percezione che la forma non basta mai a quietarlo – che la forma, insomma, non «risolve», non può essere un escamotage per evitare l’infinita dissimmetria. Per me è tutto molto concreto, fatto di vita bruta, scema, e di salvezza cercata nelle parole, tra crisi nervose e volgarità narrative, lo sperimentalismo pasoliniano l’ho sempre percepito come nascente da un bisogno elementare di sopravvivenza".

"Quindici riprese" si propone come l'addio al "corsaro", "pietra d'inciampo" di Siti, fine dell'ossessione, chiusura del cerchio. Ma a leggere questo tomo, o a rileggerne le pagine note, vien voglia di sperare che questa relazione invece non si spezzi mai. Ancora PPP? Sì, grazie professor Siti.
Per chi non conosce Pasolini questo libro è una guida. Per chi crede di conoscerlo è una sveglia. Per noi modesti devoti è un pugno allo stomaco in forma di rosa.

"Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre".
(Pasolini da "Carne e cielo"/Salani Editore)

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