Nick Cave il sopravvissuto si racconta: "Ho perso due figli. Mi sono salvato solo grazie all'amore del mio pubblico"
In un libro intitolato "Fede, speranza e carneficina" scritto con l'amico giornalista Seán O’Hagan, l'artista australiano si mette a nudo. Dai dolori indicibili del lutto alla ricerca del divino

Per provare a decifrare l'uomo Nick Cave e il suo personaggio, ovvero lo scrittore, l'attore, il rocker apocalittico, bisogna vederlo almeno una volta dal vivo. Sul palco con i suoi Bad Seeds. E' un'esperienza immersiva, profonda. C'è un prima e un dopo nella carriera dell'artista australiano che ha attraversato il punk prendendo a calci le partiture, strapazzato la Bibbia, citato le "Murder ballads", parlato a Dio come una pecora pazza e smarrita, dedicato canzoni a donne lascive, perse, drammatiche, figure sempre potentissime. Il prima è il rock al calor bianco alternato a ballate che sciolgono il cuore, il lungo periodo della tossicodipendenza da eroina da cui è uscito con fatica e feroce impegno. Il secondo arriva da una cesura: la morte del figlio Arthur, 15 anni, caduto da una scogliera a Brighton nel 2015. Per tentare di raccontare questa cicatrice senza nome, quest'ossimoro della natura - ci sono gli orfani, i vedovi ma non c'è una parola che definisca la morte di chi hai messo al mondo - Cave ha usato la musica. Il disco a ridosso del lutto si intitola Skeleton Tree, un albero scheletrico senza frutti, foglie, un tronco svuotato. Poi ha deciso di mettersi ancora in gioco con un documentario che è una ferita: One More Time With Feeling dove appaiono, sgomenti, quasi paralizzati dalle circostanze anche Earl, il gemello di Arthur, e la moglie del musicista Susie Bick. E' un film sul dolore, sull'incapacità di esprimerlo. Cave lo spiega, dice: "Io non riesco ad andare a fondo. Provo a raccontare questa voragine ma manco di rispetto ad Arthur. Perché a noi è capitato questo trauma ma anche a lui". A maggio del 2022 Nick ha perso un altro figlio, Jethro, 31 anni, nato in Australia dalla relazione con Beau Lazenby. Un rapporto volatile, poco stretto. Nick aveva deciso di conoscere il ragazzo quando aveva già nove anni, la frequentazione è stata poi piuttosto limitata, diradata. Ma, ovvio, si tratta di un altro cataclisma emotivo. Come si sopravvive a due prove così dure, totalizzanti, quasi definitive?

Cave ne parla in un libro appena uscito, una lunga intervista con l'amico giornalista dell'Observer Seán O’Hagan. Si intitola Fede, speranza e carneficina (La Nave di Teseo, traduzione di Chiara Spaziani, pagg. 416, euro 21) dove prende il suo cuore e lo offre in pasto al pubblico. Il pubblico, appunto. Perché è attraverso il rapporto con migliaia e migliaia di seguaci adoranti che l'artista ha trovato un appiglio per continuare a esistere, per resistere. Intanto rispondendo alle lettere, ogni singola lettera che riceve sul suo sito - The Red Hand files - e poi nella catarsi dei concerti. E' un'esperienza forte uno show dei Bad Seeds. Non è uno spettacolo, semmai una missione. La nostra di fan portargli amore, la sua nutrirsi di questa onda calda, materica, per non barcollare, restare in piedi. Come un rito da officiare. Le condoglianze da offrirgli con rispetto e commozione, la dolenza da sublimare, un confortarsi furibondo a vicenda. Prendere, dare. E’ un rapporto strettissimo tra lui, la band, il pubblico. Per tutta la durata dei concerti Nick ha davanti, sotto il palco, una "foresta di mani tese" pronte a sorreggerlo, carezzarlo, confermandogli che non è solo, mai lo sarà. Che lui e noi siamo una cosa sola in una circolarità di gratitudini. Cave lo spiega nel libro ma anche in una recente intervista al New York Times: "L'attenzione della gente mi ha salvato. Sono stato aiutato enormemente dal mio pubblico, e quando suono ora, sento che mi sta dando qualcosa in cambio, è un atto di sostegno reciproco, loro mi salvano. E' uno straordinario senso di connessione. C'è chi mi chiede come puoi andare in tour? Ma per me è il contrario. Come non potrei?".

In Fede, speranza e carneficina l'artista parla dei giorni della pandemia ("sembrava davvero essere arrivata la fine dei tempi e che il mondo fosse stato colto nel sonno"), del valore della scrittura, della necessità di ribaltare anche il paradigma del suo rock d'autore come nell'ultimo album in studio Ghosteen, della passione per Elvis, degli anni da tossico ("la cosa che mi piaceva dell'eroina era la struttura che imponeva alla tua vita. Le tue scelte sono molto limitate. Ti alzi, devi farti e poi la sera devi prenderne ancora. A condizione che tu abbia un discreto conto in banca è una esistenza routinaria, molto cadenzata. Se non hai soldi, è puro caos, e io non te lo consiglio"), della eterna lotta tra scetticismo razionale e credo religioso, la sequenza di crocefissione, redenzione e resurrezione.
C'è, in queste pagine, tutto il Cave più intimo, fragile, umano. Che in un passaggio dice: "E' dura per me tornarci sopra, ma a un certo punto parlarne sarà essenziale, perché la perdita di mio figlio mi definisce".
E c'è una canzone. almeno una, da ascoltare leggendo questo libro-intervista. Consiglio Push The Sky Away, quando Nick canta: “Alcune persone dicono che è solo rock n’ roll. Oh, ma arriva dritto alla tua anima. Devi solo continuare a spingere. Spingere via il cielo”.
Il cielo spezzato, spento, spaventoso dove continuano, anche nostro malgrado, a brillare le stelle. Qui dove Cave canta una luna che fa fatica a nascere e poi esplode bellissima e glaciale a indicarci la strada della speranza.