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Si può sopravvivere al suicidio della persona amata? La devastante testimonianza di uno scrittore

Matteo B. Bianchi con il romanzo "La vita di chi resta" racconta il lutto che gli ha cambiato l'esistenza. E riesce a confortare chi si trova in una situazione di dolore estremo

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
Si può sopravvivere al suicidio della persona amata? La devastante testimonianza di uno scrittore

Dopo una pandemia, durante una guerra, in un mondo fragile che vacilla non si può che ripartire da sé stessi, "dare il cuore in pasto al pubblico", condivide le esperienze, il vissuto come facevano i griot d'Africa, gli antichi narratori che riportavano in superficie gli accadimenti passati per dare conforto a chi ascoltava, dire "non sei solo, non siamo soli, è successo anche ad altri". Forse è per questo che la biografia è ritornata a essere genere preponderante proprio ora, adesso. Matteo B. Bianchi è scrittore, editor e autore tv tra l'altro di programmi di grande successo come “Quelli che il calcio” o “X factor”. Oggi ha deciso di trasformarsi in un griot d'Occidente con La vita di chi resta (pagg. 251, euro 18, Mondadori). E' un romanzo dedicato ai sopravvissuti, a chi resiste dopo un lutto indicibile: il suicidio della persona amata. Scrive: «Il suicidio è ancora un grande tabù. E invece dobbiamo parlarne, lo dobbiamo alle vittime: non solo a chi si è tolto la vita, ma anche a chi è rimasto. Perché nessuno di loro lo ha scelto e nessuno dà loro una mano. Persone come me e te devono approfittare della propria storia e condividerla con chi ne ha bisogno».
S. si toglie la vita nella casa di Matteo, la loro è una relazione agli sgoccioli dopo una convivenza durata sette anni. Un amore complicato, quasi una sfida. Matteo è più giovane, è colto e di buone maniere, ha una lavoro creativo. S. invece è un uomo adulto che detesta le convenzioni, è concreto ed inquieto. E' stato sposato, ha un figlio. I due si incontrano, si scelgono, si amano, poi l'amore si sgretola. S. ritorna nell'appartamento per prendere le ultime cose, qualche vestito, avverte Matteo, lo chiama al telefono, gli dice: "Quando tornerai io non ci sarò più". Ed è proprio così che va. Va che S. decide di ammazzarsi. Quando Matteo lo trova cadavere passa dallo sgomento al panico, urla aiuto, assiste come un burattino sventrato al via vai dei paramedici, all'arrivo della Polizia e in un'altalena vertigionosa di sentimenti ha la prima percezione definita: "Questo è il peggior dolore della mia vita".
E' un libro fortissimo La vita di chi resta, non è esattamente terapeutico anche se può servire come bussola e faticoso vademecum per chi rimane tra sensi di colpa, lacerazione, domande senza risposte, notti da incubo, paure, paralisi interiori. L'autore procede tra déjà-vu, appunti, come un cronista che ha smarrito il proprio taccuino e fa affidamento solo sulla memoria. "Se scrivo questo libro a frammenti è perché dispongo solo di quelli. Dovrei chiamarli cocci. O reperti. Cose a pezzi, comunque"


La scrittura è nitida, semplice, addirittura cruda. Ci sono momenti di assoluta commozione, tanto che bisogna fermarsi, riprendere fiato, riporre il libro, e riprenderlo dopo ore o giorni, fino a metabolizzare il male che pervade Matteo, la sofferenza che è concreta, materica come un sasaso. Un sasso dentro. Ci sono i particolari: la cassa di bottiglie sulla quale S. è salito prima di attaccare la corda a un tubo, l'incontro con il figlio bambino del suicida, le lacrime del piccolo, ci sono i ricordi: una notte d'amore in una baita ghiacciata, le scorribande in macchina, le ultime lettere lasciate da S. che Matteo non riesce a leggere, che restano in un cassetto pieno di fiamme. C'è un maglione con il profumo di S., una reliquia da abbracciare di tanto in tanto perché l'odore non svanisca. Ma poi anche quello si disperde, ineluttabile, perché il tempo scivola grandiosa e tutto ruba, tutto dissolve. E c'è in queste pagine profonde e vere la ricerca di un testo, una persona che spieghi cos'è il suicidio e come si sopravvive all'assenza. L'autore interroga psicologi, terapeuti, veggenti, sociologi fino a scegliere di essere lui il griot: raccontare la sua storia, la sua anima e le sue cicatrici.
Matteo B. Bianchi ha impiegato 25 anni per scrivere questo memoir, per dirsi/dirci di essere diventato il dolore che lo ha abitato per un tempo lunghissimo, per raccontarci che il novembre del 1998 è stato uno spartiacque. "C’è un prima e c’è un dopo. Io ero un’altra persona prima. Mi rimarrà sempre il dubbio se il vero me stesso fosse il ragazzo incosciente di allora o l’adulto contorto che ne è seguito". A tratti leggendo La vita di chi resta ritorna in mente Camere separate di Tondelli, altro libro d'amore e morte e di sopravvivenza, o quel capolavoro che è Livelli di vita di Julian Barnes. Ognuno di questi autori, come Matteo, ritiene che il proprio lutto sia più profondo e intollerabile di quello altrui. E' un processo, credo, necessario per affrontare la giusta distanza, soppesare i metri, il peso, arrivare preparati al giorno in cui si poggia il dito sull'interruttore. On/off. Il clic che scatta per tornare a respirare e avere la forza di trovare le parole. Il clic per dimenticare l'anniversare della morte di S. anche continuando ad amarlo, dedicandogli un pensiero finale e bellissimo: "Che tu sia felice ovunque ti trovi adesso".
Un libro necessario La vita di chi resta. Veramente necessario. E prezioso come un dono.

Matteo B. Bianchi dalla sua pagina Facebook
Daniela Amentadi Daniela Amenta   
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