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Mi chiamo John Ford, giro western e racconto le contraddizioni dell’America

Con un appassionato libro il critico cinematografico e voce di Radio3 Alberto Crespi ci restituisce la complessità e le ambivalenze del regista, pietra miliare in un genere di nuovo in auge. Da cosa disse davvero a Hollywood al tempo del maccartismo alla Monument Valley, le sorprese non mancano

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

Il 22 ottobre 1950 il regista John Ford iniziò il suo discorso a un’assemblea della Screen Directors Guild (il sindacato dei registi di Hollywood) “con la famosa frase «My name is John Ford. I make westerns». Una frase che è diventata una sorta di autoritratto, citata ovunque e spesso a sproposito. Perché tanto per cambiare su quella frase, su quell’intervento e su quella assemblea è nata una leggenda che ha offuscato la realtà”. Così riferisce il critico cinematografico Alberto Crespi nella sua ultima fatica, “Il mondo secondo John Ford” (Jimenez, pp. 272, € 20,00), citando “un libro fondamentale” di Kevin Briaton su “come Hollywood si divise sul tema del maccartismo”: da almeno tre anni, dal 1947 quindi, ricorda il critico italiano, negli Stati Uniti imperversava il morbo del maccartismo, autentica caccia alle streghe con liste di proscrizione per colpire fatalmente chiunque fosse anche solo sospettato di simpatie comuniste.

Cosa disse davvero il regista (ma prevalse la leggenda)  

L’assemblea era al Beverly Hills Hotel e i presenti discutevano i provvedimenti da prendere o meno contro chi non giurava per iscritto di avere simpatie comuniste. Nella sala tutti conoscevano il regista di “Ombre rosse”, non aveva certo bisogno di presentarsi. “Il primo dato storico, piuttosto divertente, è che la frase che Ford disse fu in realtà: «My name is John Ford. I am a director of westerns». E non il più icastico «My name is John Ford. I make westerns» che è passato alla storia; pardon, alla leggenda”, riporta Crespi. Se la sua non è tecnicamente una rivelazione, lo è almeno per moltissimi di noi che si erano quasi affezionati alla frase leggendaria.

Miti omerici, orizzonti sterminati, contraddizioni insanabili 

Questo passaggio fornisce tante storie. Un nome imprescindibile nella storia del cinema: John Ford. Un genere, i film western, che anche in Italia ha avuto i suoi esponenti di prim’ordine e che da un po’ fiorisce di nuovo tra i registi di punta (tra gli ultimi a cimentarsi, Almodovar senza dimenticare Tarantino) ed è ben presente nelle piattaforme online. Il passaggio racchiude anche una chiave di lettura a questo libro appassionato e appassionante che non è soltanto un saggio sull’autore di “Sentieri selvaggi”, su regista nato negli Usa orientali da immigrati irlandesi nel 1894 e morto nell’ovest nel 1973 dopo aver vinto quattro Oscalr. È su Ford ed è qualcosa di più: con penna lieve e godibilissima queste pagine ci parlano di storia e leggenda, di echi dei miti omerici, ci parlano di orizzonti sterminati e desiderio di libertà, di mascolinità tormentata e di donne decise, rette, dalla morale forte. Attraverso una lunga disamina dell’uomo e dell’artista John Ford Crespi ci parla delle contraddizioni che albergano nell’animo umano descrivendo un pezzo di una civiltà che, come ebbe a dire Wim Wenders, ha “colonizzato” il nostro immaginario di europei.

La violenza di una civiltà nata sul genocidio dei nativi 

Prendiamo le pagine in cui il critico analizza il western del 1956 “Sentieri selvaggi con John Wayne, protagonista di tanti film di Ford, nel ruolo-chiave di Ethan Edwards tornato dalla Guerra di secessione. Nel capitolo “Geronimo, Cochise, Scar e tutti gli altri”, vale a dire sugli “indiani” ovvero i “nativi”, un passaggio restituisce limpidamente uno dei significati di questa carrellata fordiana: “L’odio di Ethan Edwards verso i Comanche è l’odio per qualcosa che è dentro di lui, dentro di noi: per una violenza che è connaturata all’homo americanus (forse all’homo sapiens in senso lato), che nasce anche dall’avere perso una guerra assurda (la Guerra Civile per Ethan, il Vietnam per Travis – Travis Bicke, il tassista interpretato da Robert De Niro in Taxi Driver di Martin Scorsese, ndr) ma che è endemica, quasi genetica, nella società che l’America ha creato partendo dall’emigrazione forzata dall’Europa (quindi dalla povertà, dalla disperazione e dal senso di rivalsa) e arrivando al genocidio di un popolo. Questo è il senso profondo della presenza indiana nei western fordiani, dell’ennesima ambivalenza fra ammirazione e terrore nei confronti dei nativi americani. Sono ferite psicologiche profonde, sepolte nel vissuto di Ethan Edwards e nel cinema di John Ford. A quanto pare, per il cinema americano, per l’America tutta e forse per il mondo intero sono ancora difficili da guardare e da elaborare”.

Un fotogramma dal film di John Ford del 1966 “Missione in Manciuria (“7 Women”)

Crespi parla anche di noi, non solo del regista 

Il passaggio valeva la lunga citazione. Delineando un regista fondante per il cinema della sua epoca e a venire, ambivalente, pieno di contraddizioni, compiendo questo viaggio intorno a John Ford e a tutti i suoi film (non solo dei suoi western, sia chiaro), Crespi sotto sotto parla anche di altro: parla delle nostre paure inconfessate, del desiderio di libertà e finanche di giustizia, del sogno di una “comunità solida e solidare che Ford sogna in tutti i suoi film”, di quanto accade oggi, delle contraddizioni e delle ambivalenze annidate in tanti di noi …

L’apologo del meccanico nella Monument Valley

Tra rimandi illuminanti a film e registi, da “E.T.” a “2001 Odissea nello spazio” a Hitchcock e Sergio Leone, l’autore scandisce il volume come se ogni capitolo fosse il “passeggero” di una “diligenza”: l’uomo fordiano, la donna fordiana, l’Irlanda, l’alcol con il rapporto conflittuale con il fratello maggiore …
Oltre a svelarci dove il regista girò davvero molte scene e molti film, e le sorprese sono tante, Crespi non a caso conclude il libro con la Monument Valley e con i suoi pellegrinaggi personali nei luoghi-simbolo del regista nel 1994 e nel 1996 approfittando di occasioni di lavoro. Nel ’94 andò dalla California verso il Nevada e l’Arizona puntando alla sconfinata e maestosa vallata dopo aver noleggiato, per “un equivoco linguistico”, una decapottabile, una macchinina da pappone losangelino”, invece di un fuoristrada.  Risultato: nelle piste rocciose dell’Arizona l’auto forò e la convergenza delle ruote non resse. Al tramonto, nella piena solitudine del West, il critico impacciato riuscì a sostituire la ruota. Il giorno dopo portò l’auto in un’officina nel paesino di Kayenta. Gliela riparò “un meccanico navajo che sapeva il fatto suo”. Un navajo … Un apologo perfetto per un libro che sa incuriosire e invoglia a vedere, o rivedere, quei film. Infine una bazzecola: nell’indice delle pellicole non avrebbe guastato trovare il numero di pagina a fianco dei titoli citati.

Nato nel 1957 a Milano, da decenni a Roma, Crespi è uno dei critici cinematografici italiani più acuti, efficaci e, non di meno, ironici: è stato il critico dell’Unità, scrive oggi su Repubblica, dirige la rivista Bianco e Nero al Centro sperimentale di cinematografia, è voce storica di quell’inesauribile miniera di notizie e racconti qual  è Hollywood Party di Rai RadioTre. Tra i suoi libri si ricordano “Quante strade. Bob Dylan e il mezzo secolo di «Blowin’ in the wind»” (Arcana, 2013), “Storia d’Italia in 15 film” (Laterza, 2016) e “Short Cuts. Il cinema in 12 storie” (Laterza, 2022).

 

 

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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