Il corpo delle donne fra scelta e mercato: cosa hanno in comune la prostituzione, la maternità surrogata e l’uso del velo islamico?
Difficile non chiedersi se simili scelte possano ritenersi genuinamente volontarie. Da qui la domanda che percorre tutto il libro di Valentina Pazé: siamo davvero libere? E se sì, di quale libertà parliamo?
La libertà in quanto tale si può mettere in vendità?
Non poteva essere pubblicato in un periodo migliore il nuovo libro della filosofa Valentina Pazé Libertà in vendita, il corpo fra scelta e mercato edtito da Bollati Boringhieri, che si interroga come fa una pensatrice di professiose sullo sfruttamento dei corpi (con un occhio più attento al corpo più sfruttato, quello femminile) dentro una logica capitalistica manipolante che in alcuni casi riesce a far "passare per altruistico ciò che invece è al servizio del mercato".
Tra i temi affrontati da Pazè c'è quello che più di tutti in queste settimane è dibattutto in Italia, parliamo della maternità surrogata: spesso presentata come dono e atto d’amore e di solidarietà libero e consapevole, la Pazé si chiede se può esserlo davvero. Se non si fosse necessitati economicamente, chi sceglierebbe di sottoporre il proprio corpo per nove mesi a farmaci e cure specifiche, per poi separarsi dal proprio bambino? I vincoli che i contratti impongono alle scelte della madre, possono dirsi in questi casi equi? Dei contratti tra soggetti ugualmente liberi? Vengono riportati diversi casi e testimonianze dirette di madri surrogate, e presentati diversi contesti giuridici: i paesi in cui affittare l’utero è legale, come l’Ucraina, la Russia, il Portogallo, l’India, la Thailandia, Israele e buona parte degli Stati Uniti, e quelli dove è ammessa solo la gestazione per altri "altruistica", che prevede al massimo un rimborso spese, come Belgio, Regno Unito, Ungheria, Grecia, Canada, Australia.
Per rispondere a tutti questi quesiti ci tocca tornare alla domanda iniziale: la libertà in quanto tale si può mettere in vendita?
L'economia di mercato sfrutta i corpi come una merce. Non solo sessualmente. La fatica dei raccoglitori di frutta e verdura, spesso immigrati senza diritti, i rider che rischiano un incidente stradale per consegnare in tempo i cibi che sono o giovanissimi senza "la speranza" di trovare una occupazione stabile o persone più adulte inoccupate che devono letteramente sopravvivere. Corpi che faticano e rischiano per guadagnare meno del necessario.
Il capitalismo si basa su una forma subdola di sfruttamento. Nei sistemi capitalistici infatti non esiste la schiavitù ma esiste ugualmente lo sfruttamento di persone giuridicamente libere, dunque non obbligate a lavorare per qualcun'altro ma che per cicostanze di miseria o comunque di debolezza economica sono costrette ad accettare un lavoro anche se questo comprime la propria libertà. Marx spiegava molto bene questa facenda: l’operaio formalmente era libero di vendere la propria forza-lavoro a un padrone. Come oggi un lavoratore precario è libero formalmente di accettare o meno compensi da fame condiioni di stress lavorativo eccessivo. Ma questa libertà su carta ha un costo, onerosissimo. E si chiama sopravvivenza, poter fare la spesa o no, poter pagare l'affitto o no, poter farsi una famiglia o no.
"La formula gestazione per altri è curiosa da analizzare, scompare del tutto la figura della madre, come se la gravidanza diventasse un fenomeno incorporeo, come se un figlio fosse un prodotto senza che venga preso in esame il corpo, la persona, la donna appunto, senza le sue emozioni, i suoi sentimenti. In India esiste proprio un vocabolario per narrare un fenomeno in cui la donna viene convinta a definirsi semplicemente come utero, incubatrice umana per evitare si crei un legame emozionali col nascituro. In India a scegliere (scegliere tra virgolette) la maternità surrogata sono donne povere in quanto sono retribuite".
E dove non c'è retribuzione ma la gestazione per altri viene definita altruistica?
"Lo scambio di denaro c'è sempre anche se definito rimborso spese (parliamo di rimborsi molto ingenti) e intorno a questo poi c'è un mondo, un mercato fatto di agenzie, conulenti, cliniche, che lavorano per evitare si formi il più naturale dei legami, come in qualsiasi mammifero, quello tra madre e figlio".
Non è dunque più libertà di scelta ma libertà di consenso. Per il capitalismo se io accetto di prostituirmi, firmare un contratto per la surrogazione di maternità o lavorare in condizioni molto svantagiose va tutto bene. Ma se il contesto è inquinato, se la mia educazione, la mia attuale povertà, le pressioni sociali (pensiamo all'uso del velo nell'Islam) mi convincono che quella sia la mia scelta si tratta realmente di una scelta? O di un consenso subdolamente estorto?
Un corto circuito si è venuto a creare anche intorno al concetto stesso di dono. Se pensiamo allo scambio di doni ci si aspetta sempre una controprestazione. E ritornando all'attualissimo dibattito sulla maternità surrogata per titolo altruistico in questo caso c'è un contratto, nel dono non esiste, cediamo a qualcuno spontaneamente qualcosa. I contratti vincolano la donna a non cambiare idea e se lo si fa ci sono delle penalità, per esempio la restituzione di quel cospicuo rimborso spese.
La lettura del libro della filosofa Valentina Pazè è imprescindibile se vogliamo affrontare questo tema e tanti altri sulla libertà e il corpo con consapevolezza. Non può ridursi a un banale tifo, uno schierarsi per o contro senza capire nel profondo cosa c'è dietro quel consenso. Su certe tematiche dovremmo prenderci del tempo per informarci prima di parlare.
Valentina Pazé è ricercatrice di Filosofia politica presso l’Università di Torino, dove insegna Teorie dei diritti umani. I suoi principali interessi di ricerca vertono sulle teorie della democrazia e dei diritti, antiche, moderne e contemporanee, sul comunitarismo e sul multiculturalismo.