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Il mughetto di Ungaretti, il gelsomino di Pascoli, le camelie di Dumas: quando la letteratura si trasforma in un giardino

Ditelo con i fiori. Viaggio tra le piante più amate dagli scrittori, a cominciare dalle rose di Orwell protagoniste di una biografia inedita appena pubblicata

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
Il mughetto di Ungaretti, il gelsomino di Pascoli, le camelie di Dumas: quando la letteratura si...

Nel piccolo cimitero di Sutton Courtenay, nell'Oxfordshire, c'è la tomba di Eric Arthur Blair, il vero nome di George Orwell. Davanti alla lapide che ricorda lo scrittore visionario (distopico si direbbe oggi), profetico che ha combattuto ogni totalitarismo usando l'allegoria, cresce una rosa selvatica. Non è casuale. Perché l'autore di 1984 e La fattoria degli animali amava coltivare quei cespugli regali, così distanti dal dogma del socialismo democratico che inseguì con rigore e disciplina. La giornalista americana Rebecca Solnit è partita proprio dai fiori - "una concessione inutile che ha la meglio sul non quantificabile" - per raccontare la breve vita di un genio della letteratura, funestata da due guerre, fame, povertà, fughe. Il saggio romanzato si intitola Le rose di Orwell (Ponte alle Grazie, pagg.352, euro 20) e attraverso la metafora dei boccioli ci racconta quella necessità di bellezza che non è mai un lusso, Solnit sceglie cioè un particolare apparentemente ininfluente per scavare nella biografia dello scrittore inglese.

Che Orwell amasse la natura, le piante, è fatto noto. Tra le sue opere cosiddette minori c'è Fiorirà l'aspidistra, un romanzo del 1936, spaccato della Londra borghese di quegli anni. Le rose, però, sono altro, "una distrazione" raffinata, fuggevole mentre il mondo va a rotoli. Una distrazione certo, eppure così necessaria.
Ricordate? Una delle più grandi proteste sindacali in America, quella delle lavoratrici sfruttate dell'industria tessile nel 1912, ebbe come slogan il pane e le rose: "The worker must have bread, but she must have roses, too".

Rose amatissime non solo da Orwell ma da un esercito compatto di intellettuali, poeti, scrittori di ogni tempo. Saffo, Orazio, Petrarca, Ariosto, Tasso, Dante, Leopardi, Gozzano le hanno venerate come simbolo di purezza o sensualità a seconda del colore. Umberto Eco nel suo romanzo più celebre cita "il fiore dei fiori" in un gioco coltissimo prendendo in prestito un verso da De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense ma la rosa si schiude, cresce tra spine e profumi inebrianti anche nelle opere di Borges, in Alice di Lewis Carroll, perfino nella raccolta in versi di Pasolini del 1964.

Una rosa sulla tomba di Eric Arthur Blair, il vero nome di George Orwell

La botanica è un grimaldello curioso per affrontare la letteratura: che dire, ad esempio, dei fiori di ciliegio narrati da Italo Calvino in Lezioni americane e chiome eteree nel celebre giardino di Cechov, simbolo della leggerezza ma anche della fugacità del nostro esistere? Gli esempi sono infiniti, anzi perdonate se non riusciremo a enumerarli tutti. Prendete questo articolo dunque come una curiosità, un esercizio mnemonico.
Un paragrafo in questo breve viaggio tra petali e pistilli lo meritano senza dubbio le orchidee. D'Annunzio le trovava "sanguigne" addirittura grottesche, mentre Guy de Maupassant le adorava come "esseri prodigiosi, inverosimili, figlie della terra sacra e dell’aria impalpabile". Per Proust «fare Cattleya» in la Recherche era sinonimo di sesso. E il sesso è il mestiere di Marguerite Gautier protagonista del romanzo di Alexandre Dumas, La signora delle camelie. La donna è una prostituta e sfoggia nella scollatura un fiore bianco per venticinque giorni al mese, rosso nei cinque giorni del ciclo, per indicare agli amanti/clienti la sua indisponibilità. E poi, poi certamente I Fiori del male di Baudelaire, quelli blu di Queneau, archetipo di "le fleurs bleues” a indicare le persone malinconiche, come annota proprio Calvino traduttore. C'è un rizoma che spunta a sorpresa in una poesia del 1915 di Ungaretti rifiutata perfino dalle riviste letterarie. Quella poesia che recita: "Mughetto fiore piccino/calice di enorme candore/sullo stelo esile/innocenza di bimbi gracile/sull’altalena del cielo".

Nelle oscurità del sottobosco vale la pena di citare Il Tulipano nero scritto sempre da Alexandre Dumas in collaborazione con Auguste Maquet nel 1850, The Black Dahlia di James Ellroy - più che un fiore un omaggio a una disperatissima dark lady -, mentre le Ninfee Nere di Michel Bussi, caso editoriale in Francia nel 2011, sono quelle che si ostina a dipingere Monet nel giardino di Giverny in Normandia, sfondo di un noir portentoso dove la soluzione arriva solo nell'ultima pagina del libro. William Blake ed Eugenio Montale avevano una comune passione per i girasoli "impazziti di luce" mentre Giovanni Pascoli, nel 1903, dedica al matrimonio dell'amico Gabriele Briganti un gioiello in versi: Il gelsomino notturno. Che termina così: "È l'alba: si chiudono i petali un poco gualciti; si cova, dentro l'urna molle e segreta, non so che felicità nuova".
Che grande errore considerare inutile il tempo speso nella cura di una piantina, nell'osservazione e nel godimento della bellezza che ci circonda. Come aveva ragione Pia Pera nel trasformare i giardini in luoghi dell'anima, come è giusto quello che scrive la poetessa Chandra Candiani: la natura ci insegna a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire.
E allora oggi regalatevi una rosa, rileggete Orwell, quel passaggio da La fattoria degli animali, quando scrive che «nel tempo dell'inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario». Rivoluzionario come un fiore.

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
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