Da Shakespeare a Stephen King: i cento drink preferiti dai grandi della letteratura
Si intitola "Bere come un vero scrittore" il libro di Margaret Kaplan che attraverso le ricette originali racconta le passioni alcoliche in biblioteca
Prendete 60 millilitri di rum cubano, aggiungete una spruzzata di pompelmo, mezzo bicchierino di maraschino e qualche goccia di lime fresco. Shakerate tutto con il ghiaccio, molto ghiaccio, filtrate con uno strainer e rallegratevi perché vi state per servire un Hemingway special, il drink preferito da un Premio Nobel per la letteratura. Fu proprio lui, l'impetuoso Ernest, a suggerire la ricetta a Constantino Ribalaigua, bartender del mitico Floridita all'Avana che "sistemò" il cocktail in base al gusto di Hemingway, partendo dalla base di un grande classico come il Daiquiri, rendendolo più secco, acido e alcolico. Di relazioni tra spirito e spiriti letterari racconta un libro curioso, leggero, ma ben curato da Margaret Kaplan, tradotto da Camilla Pieretti per il Saggiatore (pagg. 290, euro 15.90). Si intitola: Bere come un vero scrittore: 100 ricette per ricreare i drink che hanno ispirato i giganti della letteratura.
Sia subito detto, a scanso di spericolate bevute, che la relazione tra alta scrittura ed etilismo non è così immediata. Anzi. La maggioranza dei libri-capolavoro non segue la parabola ondivaga della sbornia. E infatti proprio Hemingway coniò un motto da tenere a mente: "Write drunk, edit sober". Ovvero: scrivi da ubriaco, correggi da sobrio. La linea che unisce cicchetti a talento è impervia e il baratro dell'alcolismo è sempre dietro l'angolo, al punto da dissipare il genio sull'altare della sregolatezza. Vedi Jack Kerouac e Truman Capote uccisi entrambi dalla cirrosi epatica. Senza dimenticare il delirio di Hemingway, le follie di Bukowsky o di Tennessee Williams, morto soffocato da un tappo di un collirio ingoiato per sbaglio. Poi, certo, ci sono casi e casi: George Orwell preferiva una tazza di tè, al contrario di Philph Roth che raccontò la sua dipendenza etilica, senza sconti, ne La leggenda del Santo bevitore, pubblicato postumo, con tutto il dolore del caso: un testo che resta una terribile, suprema ferita aperta.
Nel libro di Kaplan non ci sono giudizi di sorta, né valutazioni educative. E' una dettagliata storia del bere tra gli scrittori, con una bibliografia imponente (circa 300 voci) e un ricettario preciso nel caso vi venga la voglia di replicare. Dall'idromele di Shakespeare, con chiodi di garofano, zenzero e miele selvatico all'Eggnog di Edgar Allan Poe, con ben otto tuorli, latte, brandy e rum (una bomba) per arrivare ai rimedi post sbornia di Wodehouse serviti dal mirabile maggiordomo Jeeves a Bertie Wooster. Prendete nota: per uscire illesi dall'hangover servono un uovo crudo, peperoncino di Caienna e salsa Worcester. Chi non dà di stomaco forse ha buone probabilità di sopravvivere non solo all'ubriacatura, ma a tutte le amarezze della vita. E così via, in un crescendo di gradi: l'assenzio dei maledetti poeti francesi, lo Sherry Cobbler di Charles Dickens, il lisergico Coralio e whisky di Dante Gabriel Rossetti, passando per il Vodka Martini di Sylvia Plath fino al Greyhound tostissimo di Breat Easton Ellis: solo vodka e pompelmo.
In questo manuale curioso si attraversano epoche, stili, gusti e sapori ad alto gradiente alcolico, ma soprattutto - ricette a parte - si fotografano epoche, versi, pagine, tendenze. Una piccola storia nella storia grande della letteratura. Manca la testimonianza, semmai, per fare uscire il testo di Kaplan dal reparto "cucina e affini" e issarlo nella vetrina degli imperdibili. Per esempio quella di Stephen King, ex alcolista e tossico redento e ora irriducibile "streight edge" . Il maestro, nel 2000 con On writing: Autobiografia di un mestiere (pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer) si mette a nudo, racconta di quando scopre di essere un etilista semplicemente buttando la montagna di lattine di birra nel cassonetto. Lui, l'uomo che alle allucinazioni da alcol dedicò un capolavoro e una tragedia horror come Shining, scrisse: "A farmi decidere fu Annie Wilks, l’infermiera psicopatica di Misery. Annie era la coca, Annie era l’alcol, e decisi che ero stanco di essere lo schiavo-scrivano di Annie. Temevo che avrei smesso di scrivere se avessi smesso di bere e di drogarmi. Non fu così, naturalmente". Prendete, dunque, il saggio di Kaplan, con i suoi deliziosi disegnini, come un viaggio parallelo nel mondo letterario. Incontrerete scrittori, saranno loro a dirvi, a proporvi un brindisi, a mescolare nello shaker rum cognac e visioni, parole e ghiaccio per un cin cin in biblioteca.