La "fame d'aria" per un figlio autistico: un padre svuotato dalla malattia del figlio e la disabilità senza sconti di Mencarelli
L'ultimo libro di Daniele Mencarelli, scrittore romano, racconta il viaggio di un padre svuotato dalla malattia del figlio. La disabilità fotografata senza sconti e con le parole di un poeta
Non fa sconti mai Daniele Mencarelli, poeta votato alla narrativa d'alto livello. Non li fa a sé stesso, protagonista in prima persona di tre romanzi duri, ispidi, verissimi: a cominciare da La Casa degli Sguardi dove tra droghe, draghi nasce un'imprevista consapevolezza tra le corsie di un ospedale pediatrico, per proseguire con Tutto chiede salvezza dove la malattia è quella degli adulti che chiamiamo "matti", fino a Sempre Tornare che è un viaggio tra l'io ragazzino e quello adulto dell'autore tra disillusioni, paure ma infine una casa rifugio che aspetta e accoglie.
Non ci sono case in Fame d'aria, l'ultimo libro (pagg. 171, euro 19, Mondadori). Non ci sono genitori che proteggono, ammoniscono, stanno svegli fino all'alba, aspettano, sperano e si struggono.
Non c'è Mencarelli Daniele come io narrante palese. Non è più lui il figlio. E' il padre in questa Fame d'aria che attacca polmoni, cuore e testa. E' Pietro, il babbo disgraziato di Jacopo, alto 1 metro e 80, "autistico a basso funzionamento, che non parla, non sa fare nulla, si piscia e si caca addosso". Pietro e Jacopo insieme a bordo di una vecchia auto che da Anagni viaggia verso Marina di Ginosa, in Puglia, ma si rompe tra i tornanti del Molise. Li soccorre un carroattrezzi guidato da un uomo con occhi verdi, Oliviero, che si propone di aggiustare la macchina e li accompagna fino al primo paese: Sant'Anna del Sannio. Un ex borgo spopolato dove sopravvivono una farmacia, un alimentari e una specie di pensione-bar-ristorante gestito da Agata, donna dai modi spicci e di animo profondo. Ad aiutarla è una ragazza con un sorriso incantevole e i denti bianchissimi, si chiama Gaia.
Pietro e Jacopo troveranno ospitalità in questo locanda che non ha saponette in bagno ma è un rifugio imprevisto, inaspettato. Qualcuno avrebbe detto: miracolo. Non Pietro, non lui che conta solo gli ingranaggi rotti della sua vita: il matrimonio con Bianca che scricchiola sotto il peso di tanta sofferenza, la via crucis del loro unico figlio che all'improvviso smette di essere il "bambino bello con gli occhi furbi" e diventa un pupazzo rotto. E poi la ricerca delle cure, degli specialisti, le mille visite mentre il conto in banca si assottiglia e feroce, inevitabile, arriva anche la miseria.
In questa parabola disperante Pietro perde perfino "la cognizione del dolore", per citare Gadda. Scrive Mencarelli: "Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode". Rabbia che risuona tra la cameretta con due letti e il bagno della pensione, quando nella solitudine delle quattro mura il padre insulta il figlio e lo chiama Scrondo, come un bruttissimo personaggio della tv anni 80, una sorta di mostro goffo e maleducato inventato da Stefano Disegni e Massimo Caviglia. Scrondo-Jacopo che sa solo mugolare, agnello di Dio crocifisso e senza difese, prova provata del fallimento di Pietro che "ha iniziato a competerci con la malattia, come fossero due innamorati che corteggiano lo stesso cuore. E alla fine ha perso.Il cuore di suo figlio se l’è preso l’autismo a basso funzionamento, bassissimo. Un innamorato deluso, incattivito, ecco che ne è rimasto".
Un uomo sopraffatto dal rancore, dall'invidia per "i genitori dei figli sani che non sanno niente, non sanno che la normalità è una lotteria", un uomo stanco, senza speranze, catapultato in un paesino vuoto, incapace di comprendere perfino la compassione che per lui e Jacopo provano Agata, Oliviero e i pochi abitanti di Sant'Anna del Sannio. Solo Gaia riuscirà a rompere la corazza, il castello di bugie che Pietro ha costruito e che frequenta come un attore consumato e costantemente in scena. Solo la ragazza saprà capire il senso di quel viaggio di padre e figlio interrotto da una frizione consumata. Il finale, a sorpresa, restituisce alla storia la pietas necessaria per commuoversi, infine.
Fame d'aria è un libro tostissimo e necessario perché alza il velo sulla condizione di seicentomila pazienti e delle loro famiglie. Perché tratta la disabilità senza alcun convenevole e mostra l'implosione del Servizio Sanitario Nazionale e l'incapacità dello Stato davanti ai fragili, ai derelitti, ai soli, a chi va giù. Non solo un romanzo, dunque, ma un grande affresco e una denuncia nello stile limpido e potente di Daniele Mencarelli.



di Daniela Amenta













