Tiscali.it
SEGUICI

"Ho visto morire il mio amore. Era un genio del jazz. Si chiamava Bill Evans"

Laurie Verchomin era una ragazza quando incontrò il pianista americano. Fu una storia fulminante. Lui un gigante crocifisso dalla vita e dalle droghe. Lei l'ultima testimone della distruzione di un artista. Che ora racconta in un libro.

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
'Ho visto morire il mio amore. Era un genio del jazz. Si chiamava Bill Evans'
Bill Evans

Quando le donne si innamorano del jazz, lo raccontano con un tocco epico, malinconico e supremo. Laurie Verchomin aveva 22 anni nel 1978. Era bella, forte, bionda e faceva la cameriera in una chiesa sconsacrata di Edmonton, Canada, riconvertita in ristorante cinese e discoteca. Era di sera quando arrivò lui, trent'anni più di Laurie. Già malato, già crocifisso eppure immenso. Si chiamava Bill Evans, pianista jazz. Solo due anni insieme vissuti pericolosamente tra una casa nel New Jersey e un appartamento a New York, in un crescendo di debiti, malattia, droga, pusher e musica, un delirio senza redenzione raccontato ora in Il grande amore. Vita e morte con Bill Evans (traduzione di Flavio Erra, minimum fax, pp. 192, € 16,00) dove Laurie, senza enfasi ma con una tenerezza disperata, celebra "the love supreme" per uno dei più grandi jazzisti del Novecento. Non offre soluzioni, non le trova Laurie, «tacita testimone del caos e della distruzione di Bill». Si limita a raccontare, grazie agli appunti della memoria, una storia privata diventata pubblica, così pubblica da trasformarsi in una composizione struggente, sensuale e purissima. Si intitola "Laurie". E' un mazzo immortale di rose. Da lui per lei.

Bill Evans e Laurie Verchomin

Lui era William John Evans, detto Bill, morto a 51 anni col fegato spappolato e il sangue impazzito come la maionese. Era il bianco del jazz, il tocco chiaro del jazz, la panna dolce e acida del jazz, il jazz che si fa carezza e abbandono. Non aveva nulla della furia degli altri: non gli eccessi di Parker, le follie di Monk, l’arroganza di Miles, i deliri di Mingus, la luce accecante di Coltrane o Coleman. Eppure quel ragazzo secco e miope del New Jersey fece la sua rivoluzione, trasformando il modale in uno spartito aperto, armonico, imprevedibile. Non più uno stile, un sound. Uno stato dell’anima, semmai. E soprattutto musica. Un’imponente cattedrale di musica meravigliosa: dagli impressionisti francesi a Gershwin, da Stravinsky a Mozart. Passando per Nat King Cole, Cole Porter, il jazz. «Perché io voglio che la gente possa cantare quando mi ascolta».

Cantiamo, allora. Come cantava Mary Soroka, figlia di immigrati russi, la madre amatissima. Siamo a Plainsfield, anni Trenta, a un tiro di schioppo da New York. Il padre è un gallese, professione tipografo col vizio dell’alcol e Mary si prende cura dei figli. È lei a impartire le prime lezioni di piano ad Harry, il primogenito. Bill è troppo piccolo ma ascolta rannicchiato in un angolo le marcette che strimpella il fratello, il suo idolo. A 12 anni ha imparato a orecchio qualunque melodia e lo sostituisce nell’orchestrina locale. E precipita nella musica. Studia Bach, Webern, Schönberg. Ha una naturalezza nel suonare, Bill, che lascia incantati. Come se il pianoforte fosse una parte di sé, il prolungamento di un cuore malinconico e in tumulto. «Poteva produrre più colori tonali Bill Evans in 32 battute che Glenn Gould in tutta la sua carriera», scrisse il critico Robert Offergeld. Aveva ragione.

Bill Evans, un genio del pianoforte

Il jazz arriva per forza. Frequentando i locali della 52esima strada a New York. Sono gli anni del Bebop, gli anni di Gillespie, Monk, Parker. Bill li ascolta seduto in fondo alla sala, rannicchiato come quando imparava a memoria le note eseguite dal fratello Harry. Gli basta uno sguardo per apprendere. Ha una tecnica mirabile, dita lunghe, bellissime. Ha la poesia nel tocco, quella capacità di suonare voci “strette”, armonicamente perfette, che cantano, incantano. Gli manca la maledizione del jazz. La trova durante il servizio militare. Comincia a farsi d'eroina.  Diventa un altro Bill, costretto a suonare per cibare la scimmia. Un tossico d’arte. La faccia triste ma sempre curatissimo, elegante, la cravatta perfettamente annodata perfino quando navigava tra i bassifondi dei pusher, quando pregava e si umiliava per una dose, quando gli strozzini minacciavano di spezzargli le mani se non avesse pagato. «La roba – disse – è morte e trasfigurazione. Ogni giorno ti svegli tra i dolori, muori di dolore. E poi esci e ti fai, ed ecco la trasfigurazione. Ogni giorno diventa un intero microcosmo di vita». Condivide il calvario con Ellaine, la prima moglie, strafatta e timida come lui. Ma ha un talento, un’intima poesia, una tecnica così cristallina e potente da riuscire a imbrigliare droghe e draghi quando suona.

Nel 1956 incide il primo album a suo nome: “New Jazz Conceptions”, con lui Paul Motian alla batteria e Teddy Kotick al contrabbasso. Sono i giorni dell’ascesa. La critica lo adocchia, il mondo del jazz lo adotta. Collabora con Mingus, frequenta musicisti del calibro di Philly Joe Jones e Miles Davis. Conosce Scott LaFaro, il suo contraltare, il suo contrabbassista. Tanto riservato l’uno, quanto scatenato l’altro. E sorridente, impetuoso, pieno di vita.

Il 2 marzo del ’59 Miles entra in sala di registrazione. Con il trombettista nero ci sono Julian Cannonball Adderly al sax contralto, John Coltrane al sax tenore, Paul Chambers al contrabbasso, Jimmy Cobb alla batteria e Bill Evans. Il progetto si intitola “Kind of Blue”. Per quanto Davis si prenda ogni merito (e ogni centesimo) per uno dei dischi jazz più amati, celebrati, citati, il tocco di Evans è così presente da marchiare il suono. Un pezzo come “Blue in Green” parla con la voce sognante, rarefatta e ultraterrena di Bill. Non servono i credit, basta l’orecchio.

Otto mesi dopo, più consapevole dei propri mezzi, il pianista organizza il proprio trio con Scott LaFaro e Paul Motian. La concezione classica di un tema sviluppato attraverso gli assolo dei musicisti, viene abbandonata a favore dell’interplay, un colloquio tra gli strumenti a base di poliritmie, suggestioni, scarti armonici improvvisi. Enrico Pieranunzi che ad Evans ha dedicato un libro bello e amorevole – “Ritratto d’artista con pianoforte” – scrive di un rapporto telepatico tra Bill e Scott. Una magia quel trio, un’alchimia perfetta che dura tre anni, cadenzati da opere come “Portrait in jazz", "Waltz for Debby", "Explorations" e le insuperabili session “Live at Village Vanguard”. Il 5 luglio del ’61, Scott muore in un incidente automobilistico. Per Evans un colpo durissimo, devastante. Riprenderà a suonare dopo mesi e il primo pezzo che il pianoforte gli suggerirà, sarà dedicato a LaFaro: “Danny Boy”.

La collezione dei dischi di Bill Evans dell'autrice di questo articolo

La morte diventa così la compagna di Bill. Lutti drammatici, ombre nerissime sul cuore. Nel ’71 si suicida Ellaine, la prima moglie. Nel ’79 si toglie la vita il fratello Harry. Evans è già un colosso del jazz, piegato dalle droghe, dalla vita. L’inferno in terra e il paradiso in testa. Eppure quando si siede davanti ai tasti è infinita meraviglia, cosi tanta musica, tanta leggiadria concentrata in un milione di note distillate con un furore dolce. Non suona soltanto, Bill. Vola, disegna paesaggi. Come Debussy, come Chopin. Sottrae dalle partiture, lascia che anche il silenzio diventi ritmo. Perfino dopo essersi sparato cocaina nella vene. Allora il passo diventava più secco, più spostato verso gli acuti, ma senza perdere nulla della grazia sontuosa.

Una carriera stellare. Se solo ne avesse approfittato. Tour in tutto il mondo. E collaborazioni da capogiro: da Jim Hall a Chet Baker, da Lee Konitz a Teo Macero, da Stan Getz a Michel Legrand. Come titolare Evans ha firmato 101 album. Alcuni sono capolavori insuperati anche grazie a Helen Keane, la manager che se ne invaghì e lo prese per mano fino a trasformarlo in una star. Con lei presero corpo “How my heart sings!” (prodotto dal fedele Orrin Keepnews), e "Conversation with Myself” che gli valse il Grammy. Proprio il giorno in cui gli comunicarono la vittoria Bill si ruppe un incisivo. Agli amici disse: «E’ la prima volta, dopo anni, che ho una ragione per sorridere. E sono sdentato». Metafora perfetta di una vita imperfetta. Scrive, suona, suona fin troppo, s’indebita per comprare la roba. Però gira con un quadernetto dove annota chi gli presta i soldi. E restituisce fino all’ultimo cent quando la casa discografica gli concede l’ennesimo anticipo. Attraversa gli anni Settanta tra altissimi e bassissimi: una nuova compagna, Nenette, che gli darà un figlio – Evan Evans – e qualche perla stupefacente come “You Must Believe in Spring”, il suo testamento.

Il libro di Laurie Verchomin dedicato a Bill Evans

E poi nel 1978 arriva Laurie, così piena di vita, d'amore. Ma neanche lei riesce a salvarlo. Nelle ultime foto che lo ritraggono Evans ha il volto scavato, i capelli lunghi, si è fatto crescere la barba. E le mani sono gonfie. Sarà Laurie ad accompagnarlo in ospedale a bordo di un taxi. Laurie che piange, che si dispera, che chiede all'autista di andare in fretta, più in fretta. Non servirà, putroppo. E' il 15 settembre del 1980 quando Bill  muore per una emorragia interna. Sono passati 31 anni da quel giorno. Eppure resta, ci resta la bellezza di una musica che attraversa il tempo a passo di valzer e sembra scritta ora, adesso. Una musica incisa nelle pieghe dell’anima. La musica di Bill Evans, l’uomo che ha fatto battere il cuore di donne che non amavano il jazz e cantare perfino il silenzio.

 

Video

Laurie

Bill Evans Trio

 

Daniela Amentadi Daniela Amenta   
I più recenti
I più grandi personaggi della storia (Ansa)
I più grandi personaggi della storia (Ansa)
Le Rubriche

Daniela Amenta

Sono giornalista. E ho scritto anche tre libri diversissimi tra loro: un giallo...

Fabio Marceddu

1993 - Diploma triennale come attore dell'Accademia d'arte drammatica della...

Ignazio Dessi'

Giornalista professionista, laureato in Legge, con trascorsi politico...

Cinzia Marongiu

Direttrice responsabile di Milleunadonna e di Tiscali Spettacoli, Cultura...

Stefano Miliani

Giornalista professionista dal 1991, fiorentino del 1959, si occupa di cultura e...

Francesca Mulas

Giornalista professionista, archeologa e archivista, è nata a Cagliari nel 1976...

Giacomo Pisano

Giornalista pubblicista, laureato in archeologia medievale, da vent’anni si...

Cristiano Sanna Martini

In passato ha scritto per L’Unione Sarda, Il Sole 24 Ore, Cineforum, Rockstar...

Claudia Sarritzu

Giornalista, per 10 anni anni ha scritto di politica nazionale e internazionale...

Camilla Soru

Cagliaritana, studi classici, giornalista pubblicista, ha intrapreso la carriera...

Cronache Letterarie

Ho fondato Cronache Letterarie nel 2011 con un’attenzione a tutte le forme di...