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Amanda Lear e Salvador Dalì: quegli anni rutilanti tra feste, rock, disco music e altro

La cantante e show-woman in una autobiografia intorno al suo legame con il pittore disegna lo spaccato di un’epoca tra anni ’60 e ’70 con personaggi come Brian Jones, David Bowie e figure eccentriche. E ricorda come è nata la leggenda di Amanda transessuale

Stefano Milianidi Stefano Miliani   

Era “un giorno d’ottobre” del 1965 a Parigi. Amanda Lear iniziava la carriera di modella. Con il ragazzo irlandese di cui si è invaghita, Tara, “sposato con due figli adorabili”, e con il chitarrista dei Rolling Stones Brian Jones, si ritrovò a cena in un ristorante. “Brian sfoggiava l’abbigliamento tipico del musicista rock: occhiali scuri, foulard, collane e un cappello a tesa larga. Tara indossava un completo di velluto viola che sembrava risalire ai tempi della restaurazione inglese e una camicia di pizzo col collo jabot, mentre io portavo una minigonna aggressiva e degli stivali alti”. In quel ristorante la modella conobbe Salvador Dalì, il pittore surrealista degli orologi liquidi e delle visioni soprannominato dal “padre” del Movimento surrealista André Breton “Avida Dollars”. Fu il primo incontro di una frequentazione e di un amore che Amanda Lear ripercorre nella autobiografia “La mia vita con Dalí” pubblicata in questo 2023 dal Saggiatore (pp. 360, € 19) e uscita per la prima volta in Francia nel 1948 con il titolo “Le Dalí d'Amanda”.

Quel passo nelle pagine iniziali dà subito il timbro dei ricordi della modella, cantante, show-woman: un timbro divertito attraversa le memorie di una ragazza curiosa in una scena popolata da personaggi variopinti dell’arte dove dare spettacolo e stupire è la regola. In quel ristorante Dalì la chiamerà dapprima “Ginesta”, lei lo rimette in riga, si rivedranno, inizierà un ménage che l’autrice assicura “platonico” con il benestare della moglie Gala, colei che sovrintendeva alla vita del pittore. “Quel vecchio pazzo aveva un fascino innegabile e io stavo cominciando a cedere alla malia della sua seduzione”, ammetterà Amanda Lear. Un paio di pagine più oltre: “Quell’incontro con Dalì mi aveva lasciata inquieta”. Tara Browne, ricorda, morirà in un incidente stradale, lei era disperata, il flusso degli eventi e la sua curiosità la portarono nella corte del pittore nel ruolo di protagonista, di co-regina.

Amanda Lear e Salvador Dalì, guarda la fotogallery di Tiscali

Amanda Lear tesse il ricordo di un’epoca, di una cultura in ebollizione, di anni in cui Londra “stava cambiando a vista d’occhio. Carnaby Street per la moda, i Beatles per la musica, King’s Road dove tutti s’incontravano il sabato pomeriggio”. In quell’esplosione di vitalità si infiltrava un’ombra di cupezza: Brian Jones, amico dello scomparso Tara Browne, “era sempre più schiavo della droga”, registra l’autrice. Il chitarrista finirà troppo presto di vivere. 

Tornando a Dalì, era un “ammaliatore”. Tra pranzi, cene, soggiorni, ritorni a Parigi, incontri con una formazione che ha stravolto la pratica del teatro per strada come il Living Theatre, champagne, ritorni a Londra dove “il movimento hippy è al suo apice” e vive “l’estate del 1967 come un sogno”, incursioni a casa di Keith Richards, l’esistenza di Amanda Lear correva frenetica: in queste pagine l’autrice regala uno spaccato di un tempo in cui tutto sembrava possibile.

Amanda Lear a una mostra di suoi dipinti ad Amburgo, in Germania, il 7 agosto 2013. Foto Epa / Sven Hoppe tramite Ansa

Da queste pagine filtra lo spaccato di una società altolocata con, spesso, parecchi imbucati e imbucate. A una festa parigina con gente come Brigitte Bardot ed Elizabeth Taylor Dalì esorta Amanda Lear a scoprirsi un seno, lei registra che a nessuno tra i festaioli interessava come era mascherata, mentre il seno attirava gli sguardi come una calamita. Piccoli dettagli di ordinaria bizzarria che travalicano la cronaca del particolare ménage amoroso con il pittore molto più anziano, essendo la cantante, attrice, conduttrice televisiva, nata a Ho Chi Minh City nel 1939 mentre lui era nato nel 1904 a Figueres, in Spagna, dove morirà nel 1989.

Tanti i dettagli saporiti. A pagina 277 Amanda Lear rievoca quando tornò a Londra “per prendere il controllo della mia storia d’amore con Bowie e cercare di capirci qualcosa” e il creatore di Ziggy Stardust le proporrà di cantare in un suo show per la televisione americana vestita da regina di Picche. Chissà cosa ne sarebbe venuto fuori. Intanto una confessione: “Entrare a far parte del mondo del rock era proprio quello che desideravo”. Il ruolo di semplice musa non le si addiceva.

La storia politica filtra, in queste pagine, con i drammi dell’epoca? No. L’autrice ricorda come Dalì parlasse “di continuo della nipote di Franco, Carmencita”, come volesse ritrarla, tuttavia che Franco fosse uno spietato dittatore resta fuori dalla porta. La show-woman sarà al fianco del pittore all’inaugurazione del Museo Dalì il 23 settembre 1974 e il tono è quello di una donna stupita da quanto accade tra incontri, pranzi, cene, gli sforzi per sfondare nel mondo musicale. A proposito: con tanti personaggi che entrano ed escono avrebbe fatto piacere trovare un indice dei nomi a fine volume. Curioso poi ci siano i nomi di chi ha rivisto il testo e non di chi lo ha tradotto.

La cantante ricostruisce anche come è nato il mito intorno alla sua presunta ambiguità sessuale in occasione dell’album del 1978 “I am a  photograph”. “Il suo lancio fu sostenuto da una campagna pubblicitaria incentrata sulla mia ‘scandalosa personalità da sex symbol’ – scrive - I giornali colsero l’occasione al balzo: ero l’amante di David Bowie, cantante bisessuale, e la pupilla di Dalì, genio dalle inclinazioni ambigue. Da lì a diventare io stessa un misterioso androgino, il passo fu breve. Nel giro di pochi giorni diventai una transessuale nata in Transilvania come Dracula, idea tratta da una delle canzoni del ‘Rocky Horror Picture Show’. L’idea che la bionda misteriosa con la voce roca potesse essere un ragazzo deliziò i media, e così iniziai a ricevere offerte da tutte le parti per apparizioni televisive, interviste e servizi fotografici”. Così nascono le leggende mediatiche. Quell’album fu un successo della disco music internazionale, lei si è divertita parecchio.

Dalì, che posto ha, alla fine? L’autrice stronca alcuni suoi quadri, lo vede sperperare soldi a destra a manca, osserva l’innocua ossessione per le penne stilografiche e altre amenità, l’artista spagnolo fa da perno alla fotografia di un’epoca e di un jet-set popolato da artisti, scrocconi, ricchissime e ricchissimi, figure effimere. Una constatazione amara accompagna le pagine finali: “Ho pianto sapendolo solo e infelice verso la fine della sua vita, e ho sofferto nel vedere la sua agonia raccontata dai media e fotografata da Helmut Newton. Che umiliazione essere finito tra le grinfie di un entourage avido che lo ha allontanato dai suoi amici fingendo di proteggerlo, e che ha negoziato contratti indegni che hanno permesso di commercializzare il suo nome come un oggetto di poco conto: profumi, cravatte, lacci per scarpe, borse e compagnia bella”. Fino alla stoccata a pagina 357 e 358: “Per anni sono stata al suo fianco e sono in grado di riconoscere le sue opere, ma in giro ci sono parecchi ‘Dalì’ falsissimi, alcuni perfino esposti (soprattutto in Italia) e io non posso fare nulla per impedire truffe simili […] Tutto questo mi disgusta, ma non posso farci niente”, scrive Amanda Lear. Che, mettendo il sigillo a esperienze rutilanti, affonda il colpo su quel che è diventato un marchio per far quattrini.

 

Stefano Milianidi Stefano Miliani   
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