L’arte di Peppino Mazzotta, dono degli Dei che nasce da dedizione, studio e ricerca continua della perfezione

Non solo teatro, ma anche cinema e televisione, dove sin dalla prima serie è l'inseparabile braccio destro del Commissario Montalbano: Fazio. La popolarità non ha minimamente scalfito la sua personalità e quella inquietudine che lo spinge ad una insoddisfazione costante necessaria per non accontentarsi e continuare a sfidarsi

Peppino Mazzotta - Foto Ansa
Peppino Mazzotta - Foto Ansa

Sono arrivato in Calabria a Palmi (RC) nel 1991 e per tre anni ho frequentato l'Accademia d'arte drammatica.  Quel che mi colpì ed ancora in me persiste è il senso di “casitudine” (sentirsi a casa), coadiuvato dalla presenza di un colle, il Sant'Elia che domina la cittadina Calabrese omonimo del nostro che ha dato il nome anche al nostro Stadio. Mia madre quando seppe della partenza si disperò e mi urlò: “Vai in Calabria, con tutta la gente che rapiscono”, ed io le risposi come se venissimo da una terra dove non rapiamo nessuno NOI sardi! E poi quella lingua, il calabrese che a seconda delle province assumeva forma e suoni completamente diversi: Reggitano, Cosentino e Catanzarese mi ricordavano i nostri Campidanese, Barbaricino, e Logudorese, e le isole linguistiche alloglotte, noi col Tabarchino e Catalano, loro con le varianti Grecaiche e Albanesi. In questa terra che ho sempre sentito così affine alla mia ho conosciuto Peppino Mazzotta, che ha nel nome un diminutivo, ma come nella nostra lingua “quel che viene nominato come piccolo in realtà esalta una grandezza” - cito come esempio fra le tante l'espressione sarda Pitticcu Puru, dove il significante “piccolo” viene rafforzato dal termine “puru”, rendendo il significato grandissimo (una sorta di litote). Peppino mi colpì fin da subito per le sue qualità, e per il suo essere così riservato nella sua vita e nella sua arte. 

Un'arte fatta di dedizione, studio, costanza, ricerca continua della perfezione, quell'arte che sembrava essere quasi un dono di un Olimpo e/o degli Dei, che ogni tanto per il loro prediletto (Peppino) riservavano trionfi ma anche sfide importanti al limite del sopportabile. Un fanciullino proveniente da un paesino di montagna della Calabria meno conosciuta, Domanico nel cosentino, con una matrice agro-pastorale ancora viva e vivida, dove quelle che vengono chiamate tradizioni e intuite come manifestazioni folkloriche sono il quotidiano. E lui di questo quotidiano si è nutrito e lo ha riportato in alcuni suoi spettacoli capolavoro, dove la potenza e l'arcaicità della sua lingua madre hanno risuonato senza tempo (cito Arrobbafummo), o altri dove la sua perfezione ha indagato territori arditi (Quadrifonia in Radio Argo). 

Ma non solo teatro, anche cinema e televisione, dove sin dalla prima serie è l'inseparabile braccio destro del Commissario Montalbano: Fazio. La popolarità non ha minimamente scalfito la sua personalità e quella inquietudine che lo spinge ad una insoddisfazione costante necessaria per non accontentarsi e continuare a sfidarsi. Lo abbiamo incontrato a Napoli.

Peppino ti ho conosciuto e fra gli allievi del primo anno, in Accademia, e fosti inserito con Cerlino (Savastano in Gomorra) nello spettacolo di diploma di quelli del terzo anno, Intrighi d'amore di Torquato Tasso, per la regia di Alvaro Piccardi, quello può essere considerato un tuo debutto? 

Si, lo spettacolo Intrighi d'amore è stato il mio debutto assoluto; io in quello spettacolo interpretavo Pantalone, quindi mi confrontavo con una maschera, con La Commedia dell'arte, che io non conoscevo affatto, ne ignoravo proprio l'esistenza. Quindi è stata una sorta di Epifania, sono stato immesso con la forza in un mondo a me ignoto, ma forse questo mondo da qualche parte risuonava dentro di me, e quindi questa risonanza è apparsa immediatamente in una vibrazione, che mi ha fatto “accordare” perfettamente il personaggio che ho restituito al pubblico come se lo conoscessi da sempre. 

C'è stato un momento quando ti chiamarono per fare il Militare ricordo in cui tutto sembrò franare, in cui qualche quadro dirigente cercava di orientarti verso i loro interessi, che rapporto hai con la terra che ti ha dato la prima formazione? 

Si per un cavillo burocratico mi ritrovai con la Cartolina rosa in mano, proprio durante l'anno accademico; reagii molto male, io sono una persona che somatizza, e cominciai a stare male fisicamente, fui ricoverato addirittura in ospedale (n.d.a ricordo benissimo la lunga notte in cui feci la veglia mentre tu rigettavi tutto), poi alla fine fui riformato. 

Per quel che riguarda la Calabria è una matrice fondamentale anche nella mia vita lavorativa e creativa però essendomi io formato a Palmi (come te) ho avuto la fortuna di incontrare Maestri nazionali e internazionali (oltre che avere l'occasione di frequentare una Accademia europea per un periodo limitato e confrontarci con colleghi di altre nazioni Varsavia, Amsterdam, Praga, la mia formazione la devo a loro come attore e come persona che è entrata in questo mondo artistico, però ribadisco nel bene e nel male la Calabria incide sia nel mio essere artista che nel mio lato umano. (N.d.a il Presidente Francesco Zinnato fece arrivare i migliori Maestri da tutte le accademie d'arte drammatica del mondo, e diede un respiro innovativo alla nostra con l'ausilio di Alvaro Piccardi prima e Luciano Lucignani come direttori artistici).

Dal quarto anno in poi è stata una vita in discesa e in salita, dopo la specializzazione con Giorgio Albertazzi ti ricordo con lui in scena ne “Le memorie di Adriano” con la regia di Scaparro, scena che condividevi anche con la nostra Marisa Sannìa, qual e il tuo legame con la Sardegna? 

Si, io venni strappato alla scuola dalla proposta di Albertazzi che con il regista cercava un ragazzo che potesse interpretare Adriano da giovane, e da quel momento è iniziato un nuovo viaggio (finché stavo a scuola, stavo in un ambiente abbastanza protetto), mi sono trovato nel mondo del lavoro, in una condizione per me nuova, “obbligato” a viaggiare, a stare negli alberghi, nelle grandi città, confrontandomi con la vita metropolitana che conoscevo veramente poco.

Da quel momento per dieci anni ho fatto lo scritturato, in lungo e largo per lo Stivale, passando da Albertazzi, Teatro Bellini, poi Parma per tre anni, fino a che non ci siamo messi in una condizione di autonomia, creando una compagnia diventando “artefici del nostro lavoro”. 

Il legame con la Sardegna, è un legame molto forte, per ragioni sentimentali, prima per quasi otto anni, e poi per altri tredici, prima al sud, e poi al nord, e mi sono legato tantissimo a quella terra che amo molto, tant'è che molte volte ho pensato, e ancora oggi ci penso, di trasferirmi in Sardegna. È un luogo dell'anima, che mi ha rapito da subito, c'è qualcosa in quella terra che mi attrae, che mi fa percepire che in qualche modo è un luogo della felicità, è casa mia, è come sentirmi a casa, è quasi un luogo terapeutico, e quindi in questi pochi anni che non ci torno per varie ragioni, mi manca, mi manca tantissimo. 

Dopo ci fu il momento che io soprannominai il Gruppo dei sei, tu, Fortunato Cerlino, Francesco Saponaro, Vito Facciolla, Postiglione Alfonso e Massimo Zordan, con la creazione della compagnia Rossotiziano che portò avanti tanti progetti, che ricordi hai di quegli anni? 

Si quel gruppo, quel collettivo è sicuramente il progetto più bello in tutti questi anni di lavoro, insomma l'esperienza più bella della mia vita, un po' perché eravamo tutti giovani, pieni di entusiasmo, senza nessuna forma di disillusione anzi al contrario, completamente proiettati nell'idea che quello che facevamo poteva incidere sulla realtà, sul futuro e cambiare le cose, poteva incidere anche su noi stessi. 

Eravamo pieni di energia, non ci fermavamo di fronte a nulla, passammo dei periodi di difficoltà economica, vivendo tutti in una casa, dormendo tutti in una stanza, mangiando una volta al giorno, e tutto questo non ci pesava, ci sentivamo vivi e padroni del nostro tempo, poi quella esperienza si formalizzò in Rossotiziano, che ancora viene ricordata per molte delle sue produzioni, e anticipammo anche delle  tendenze, fummo i primi con la Trilogia della Scienza (i tre testi che scrivemmo intorno alla storia della bomba atomica), che inaugurarono  il filone scientifico  a teatro, cosa che fino ad allora  nessuno aveva mai fatto, e che solo l'anno successivo fece Ronconi, ma anche Lui arrivò dopo di noi. 

Ma tutto quel percorso creativo è stato fondamentale e ancora oggi fa parte del mio essere artista, in quegli anni scrissi Illuminato a morte, sperimentando l'essere autore e attore, ed ancora oggi, questa forma sincretica è quella che prediligo, sia in testi originali scritti da me, sia nei casi in cui prendo in prestito drammaturgie d'altri, è il caso di Radio Argo, lo spettacolo che ho allestito nuovamente qualche giorno fa al festival di Gibellina. 

Quei dieci anni sono stati fondamentali, i semi sono stati gettati durante quel meraviglioso percorso di ricerca, dove ognuno di noi ha poi trovato la sua strada, la sua identità artistica. 

Il teatro in Italia un po' come il cinema, sembra essere a gestione familiare allargata, tu che sei sempre stato un libero battitore, quali difficoltà hai avuto a muoverti in questi Feudi (ricordo l'esperienza del Tartufo, che ti provò molto). 

Io sono stato molto fortunato, perché “ho campato” di questo mestiere da subito, e non avendo una famiglia che mi potesse sostenere alle spalle, questo fatto è stata molto importante; la situazione in questo Paese riguardo ai Feudi, alle famiglie e alle consorterie, c'è sempre stata, e purtroppo peggiora, si consolida un modello. 

Come reagire? Ognuno deve ascoltare la propria natura, io sono felice di essere fuori dai feudi, perché mi sento più a mio agio, e quindi all'interno di questa condizione esistono comunque degli spazi ed io mi muovo in quello spazio, non è tantissimo, ma lo uso comunque. Non vorrei dire altro, perché non voglio entrare in una discussione 

che sconfinerebbe in altro ambito, ma è sotto gli occhi di tutto, che le consorterie occupano la maggior parte dello spazio, usano la maggior parte delle risorse, e si impongono al di là di quella che è la proposta culturale che stanno facendo, quasi fossero “cartelli” che hanno acquisito un potere, e una capacità di far circolare le proprie persone e le proprie idee.   

Dopo vent'anni di Montalbano qual è l'insegnamento più grande che ti hanno lasciato i Maestri come: Camilleri e Sironi? 

Camilleri e Sironi erano due persone completamente libere che hanno avuto un grandissimo meritato successo, due intellettuali diversi, uno scriveva con la macchina da presa, l'altro scriveva invece con la penna, due spiriti liberi, critici, non appartenevano a nessuna consorteria, dicevano sempre quello che pensavano, agivano quasi sempre, per me sempre in accordo con quelli che erano i loro principi, pensieri, e raramente scendevano a compromessi. Persone attente al prossimo, capaci di leggere l'ALTRO fuori dal pregiudizio. 

Entrambi entravano in relazione con la persona che avevano di fronte in maniera diretta, senza valutarla sulla base si preconcetti o appartenenza, e avevano una grande capacità di “leggere” le persone nel profondo. 

In questi venti anni ho imparato tantissimo, non solo come attore, perché ho incontrato tante persone, che poi la cosa straordinaria di Montalbano, era quella sorta   di bolla che si era creata, un collettivo di persone che lavoravano insieme guidate dagli stessi valori e ideali, integre, non corrotte da compromessi pregressi. 

Io ci sono finito dentro per fortuna, e l'incontro con Camilleri poi è stato un privilegio perché non sempre capita di poter incontrare un intellettuale di questa caratura, condividere viaggi o cena, e devo aggiungere che ogni volta che mi ha detto qualcosa, quel qualcosa mi è rimasto in testa, e mi è anche servito; e questa era la sua grandezza; anche Sironi con grande franchezza e compassione ha individuato rapidamente “le mie zavorre” e non solo, me le ha mostrate, mi ha aiutato a superarle: si è comportato come un papà sia sul set, che nella vita. 

Ho avuto grandi insegnamenti perché grandi erano coloro che me li hanno impartiti. 

Fra i testi che hai scelto di interpretare c'è n'è uno che ancora non ha visto la luce e che vorresti mettere in scena? 

Testi e progetti ce ne sono tantissimi sia scritti da me, o di altri autori, però il prezzo che si paga in nome della libertà è che non sempre si trovano gli spazi o le strutture disposti a produrteli. Io, da anni vorrei mettere in scena il romanzo di Gogol “Le anime morte” (opera di seicento pagine) di cui ho curato un adattamento teatrale e che propongo ogni tanto, ebbene tutti manifestano grande interesse per il testo poi non si conclude, forse anche  in virtù del discorso precedente, essendo uno spettacolo che necessita di molte risorse, queste sono sempre destinate a coloro che fanno parte dei citati Feudi, legati a fattori politici, scambi o convenienze di natura varia. 

Altro testo straordinario che io ho tanto amato, che io spesso io propongo ai teatri, agli amici, è Gli ultimi giorni dell'umanità di Krauss, del quale tanti anni fa, cominciai a fare la riduzione drammaturgica; 

perché questi due testi in particolare perché con le loro diversità risuonano nel presente in maniera sconvolgente, che denunciano la meschinità e la pochezza, degli errori che l'umanità fa costantemente, e del quale non riesce ad affrancarsi, in quanto sistema, poi i singoli individui riescono a farlo; persiste il problema della guerra, abbiamo ancora una moltitudine di individui che non solo  prevaricano  i propri simili, ma lo fanno con  orgoglio quasi fosse una azione virtuosa, che li rende persone valide agli occhi della società. 

Questi testi credo sia doveroso rappresentarli hic et nunc, perché sono necessari e sublimi al contempo. E poi ci sono anche alcune riduzioni teatrali di alcune sceneggiature tratti da alcuni film, addirittura due lungometraggi mai “usciti” in Italia.

Fare teatro in Italia e fare comunque politica, siamo dei Corpi di Stato, o lo Stato del nostro corpo che ci permette di essere al servizio della comunità? 

Io credo che fare Arte in generale, è un gesto politico, purtroppo ultimamente questa vocazione politica con la P maiuscola della creazione è subordinata a troppe altre cose, e quindi questa intenzione finisce in fondo alla lista, talmente in fondo che si perde completamente il senso e si dimentica che questa possibilità è spesso insita nell'esercizio del processo creativo. Ma è il nostro tempo, siamo in un tempo di decadenza, siamo in un tempo dove dei valori si sono persi, in cui la gratificazione non viene dalla virtù ma viene da “altro” e quindi le persone inseguono altro, e purtroppo l'arte in genere a qualsiasi livello la si voglia fare, è qualcosa di complesso a cui bisogna dedicarsi rispetto alla quale bisogna avere una fede. 

Quando la fede sia dei nostri colleghi ma soprattutto fra coloro che ne gestiscono l'aspetto amministrativo, logistico e politico, quando questa fede non è orientata e centrata alle questioni legate alla creazione e quindi alla funzione politica di quello che stanno facendo, ovviamente tutto viene inquinato, perché le priorità sono altre, sono sempre altre. E quindi quei rari casi in cui certi spettacoli mantengono una freschezza che si avvicina ad una verità scevra da qualsiasi condizionamento, il pubblico se ne accorge, e reagisce a volte in maniera sovradimensionata (n.d.a ride), è come se improvvisamente si trovasse di fronte ad una realtà comunicativa franca e sincera che attendeva da tempo, staccata da qualsiasi sotto testo o sovra testo o secondo fine... 

E questo però mi da la forza di continuare a fare quello che faccio, nel modo in cui lo faccio con tutte le difficoltà relative, questa ricerca della verità a cui pochi si dedicano ormai, mossi da una vocazione o da una incapacità dettata da una onesta intellettuale e umana, o per volontà politica di non poter fare altrimenti, e di conseguenza di FARE RESISTENZA a questo ANDAZZO, di fare resistenza a questo modello dominante. 

Siamo, e mi ripeto in un momento di Decadenza, ciò non vuol dire che non ci siano isole illuminate anche nel momento storico attuale, ma per tornare a Krauss, domina e impera “quel modello predatorio” che ogni individuo applica alla comunità a cui appartiene e al rapporto che ha col prossimo, il teatro dovrebbe parlare anche di questo ma se le priorità sono altre, il teatro perde potenza e diventa un prodotto pure lui, che va venduto come tanti altri prodotti. 

Ti ho sempre ammirato, e mi sono sempre sentito affine come radici, anche se io sono cittadino e tu come si dice da Noi vieni dai Paesi, ma quando io ho vissuto in Calabria, c'era la mia mamma di Domanico, la tua mamma Jolanda, com'è convivono tutti questi aspetti apparentemente così distanti nel tuo processo creativo? 

Questi modelli convivono perché obbligatoriamente devono convivere, non posso sottrarmi: in alcuni casi positivamente, cioè io posso usare qualcosa della mia vita contadina nella mia vita urbana e viceversa e alcune volte negativamente, costituiscono per me una difficltà, una zavorra da superare. 

Questi due mondi questi mondi  a volte visti con uno mio sguardo esterno, mi suscitano tenerezza, altre volte sono una eredità pulsante difficile da gestire. 

Sei scrittore, sei formatore, sei attore, sei inquieto, c'è qualcosa che non Sei ancora stato e che vorresti essere, e di quel che hai fatto cosa non avresti voluto fare?

Io sono tante cose e non sono nulla, perché essendo una persona inquieta ed essendo una persona sempre alla ricerca di un equilibrio nello squilibrio si cerca un appiglio ovunque, per cui uno pensa che per un attimo sia far l'attore, poi dato che quello squilibrio rimane comincia a scrivere, poi si rende conto che anche li l'inquietudine permane, allora fa un’altra cosa. 

IO non mi sono mai considerato una cosa, gli Altri mi mettono delle etichette, c'è chi pensa ch'io sia un attore televisivo, chi teatrale, c'è chi pensa ch'io sia uno scrittore o un regista, io non penso di essere nulla, penso di volta in volta di avere dei bisogni di avere il desiderio di raccontare delle cose per condividerle con gli altri, perché penso che possa essere utile condividere una intuizione, un pensiero, scegliendo a seconda del tempo il mezzo migliore per comunicarle, che sia scrivere, dirigere o fare l'attore. 

Alla base di tutto persiste la gioia della condivisione con gli altri oltre che l'inquietudine costante, che ha una sua valenza positiva, ecco perché a me non piace questo approccio perentorio e iperegotico, quando un attore comincia a dire: “Io sono il migliore, io ho capito tutto, io so come si fanno le cose”, questo modo di fare spegne quell’energia necessaria per fare delle scoperte, altrimenti ti metti in un piedistallo e dici osservatemi guardatemi io so tutto! 

Invece a teatro non c'è questa distanza con il pubblico, avviene ovvero l'attore Medium si “offre” con tutte le sue fragilità, i suoi dubbi, le sue domande, e agisce dentro questo squilibrio. Ma dato che questa forma di comunicazione non interessa essendo noi nell'epoca della performance, e dato che non sono vincolato da calcoli e progetti, dato che mi è andata bene come attore, posso scegliere oggi mi fermo, domani faccio una serie, poi in film, campo, campo pure bene, invece mi sono rimesso in discussione, ho cominciato a scrivere, ed essendo un neofita, ho dovuto ricominciare daccapo questa materia. 

Vale anche per la regia, ti trovi a dirigere attori spesso anche più bravi di te e cercare in qualche modo di proporre soluzioni migliori delle loro, o stabilire rapporti di collaborazione; io mi sono sempre messo in discussione, perché dirigere attori come Milvia Marigliano, Andrea di Casa, attori giganteschi, io, che facevo l'attore, ecco, non è stato facile. 

Ma io non mi sono “mai messo comodo” e la mia non è una ideologia è una “chiamata”, io non so stare comodo, e anche per il principio di esho-funi, inseparabilità fra uomo e ambiente, (citazione del Buddismo giapponese di Nicheren Daishonin), io ricerco la scomodità e automaticamente il mio ambiente è sempre impervio, perché io sono una persona che non si accomoda mai. 

N.d.A 

Se come in Caravaggio la luce determina la straordinarietà dei personaggi raccontati dal suo pennello, io non posso scordare il primo incontro che dal buio della platea del teatro Sciarrone di Palmi feci con Peppino, fui rapito da quel suo agire che sfiorava la perfezione nella interpretazione di un Pantalone illuminato su quel palco, Lui minuto dalle movenze caravaggesche, che diventava un gigante posseduto da quella verità e purezza che ancora lo pervade. 

E non posso non commuovermi mentre scorrono le sue parole che sono Passato Presente e Futuro, per dirla con Eliot Thomas (Quattro Quartetti), e diventano quasi un Manifesto, proposte condivisibili, anzi che sono già l'oro di Calabria, una Magna Grecia intellettuale, e non solo, da dove ripartire.