Francesco Moser: "Il retroscena della rivalità con Saronni. Pantani? Ecco cosa avrebbe dovuto fare"
È il ciclista italiano che ha vinto più di tutti, l'unico che ha stracciato Eddy Mercks, eppure non se la tira neanche un po'. E continua a pedalare in una vita in salita: "Perché l'importante è migliorarsi, fare le cose per bene, anche ora a 70 anni"
È il ciclista italiano con il maggior numero di successi in carriera visto che ha vinto la bellezza di 273 corse. Prima di lui, solo Eddy Mercks. Che, tra l’altro, si è preso il gusto di stracciare quando nel 1984 ha stabilito a Città del Messico il nuovo record dell’ora, facendo 51,151 chilometri orari con quella bici futuribile e tanta benzina ancora nelle gambe. Una cifra rimasta imbattuta negli anni e poi diventata il nome di uno dei suoi vini più pregiati e richiesti. Francesco Moser, però, appartiene a quella razza in estinzione di persone che non se la tirano nemmeno un po’. Un uomo delle montagne che il dolore e la fatica li ha conosciuti fin da bambino, crescendo in una famiglia di 12 figli e perdendo il padre a soli 13 anni. E ti colpisce che quando gli chiedi perché abbia cominciato a correre in bicicletta così tardi, visto che aveva 18 anni mentre in genere si iniziava a 14-15 anni, risponde con disarmante serenità: “Sì, è vero, ero avanti con l’età ma il fatto è che avevo da fare in campagna. Dovevo lavorare. Ho fatto tanto allenamento nei campi. Il lavoro era molto pesante a quei tempi e i muscoli me li sono fatti lì”. E te lo dice senza l’ombra di un rimpianto né con aria di sacrificio. Se una cosa andava fatta, si faceva. Punto. E oggi che di anni ne ha 70 sfoggia la stessa determinazione, lealtà e grinta nel fare per bene le cose che ha intrapreso. “Perché? Per migliorarsi, per farle meglio”. Le corse come i vini, i record come nuovi avveniristici modelli di biciclette. E in quest’etica dell’innovazione che va a braccetto con la tradizione c’è tutto Moser. Intervistarlo è emozionante perché sai che davanti a te c'è una leggenda. L'occasione è data dalla pubblicazione della sua autobiografia "Un uomo, una bicicletta".
Com’è allora che si è deciso a iniziare a correre?
“Mi ha convinto mio fratello Aldo. Lui, così come Enzo e Diego, tutti più grandi di me, correva in bicicletta. Io ero avanti con l’età ma alla fine ho ceduto più per curiosità che per convinzione. Mi sembrava di non essere forte”.
E invece…
“E invece ho visto fin da subito che arrivavo davanti. Nel 1969 ho fatto 15 corse e sono andate tutte bene. La prima fu nella quarta domenica di luglio, proprio lo stesso giorno in cui gli astronauti sbarcarono sulla Luna. Era la festa della Madonna dei Campi”.
Poi le corse e le vittorie si susseguirono per quasi 20 anni. Ma qual è quella che le è rimasta di più nel cuore?
“Il Giro d’Italia che sono riuscito a vincere nel 1984, indossando la maglia rosa per tanti giorni e vincendo 4 tappe. Insomma, tanta roba. Anche perché ero già arrivato secondo per due volte e arrivai secondo pure l’anno successivo, nell’85. E poi il record dell’ora. Mi è sempre piaciuto correre in pista. Avevo già vinto il campionato del mondo”.
Che cosa le ha insegnato uno sport faticoso come il ciclismo?
“A lottare. E a essere sempre pronto a tutto. Preparato a dovere, allenato, sapendo in anticipo i percorsi da compiere. Poi, certo, non si può prevedere tutto. Capita che buchi una gomma o che cadi. A me è successo alle Olimpiadi di Monaco del 1972, ad esempio”.
Senza quella caduta avrebbe potuto vincere anche le Olimpiadi.
“Sì, stavo vincendo. E all’ultimo chilometro ho bucato. Poi sono passato al professionismo e quindi non ho potuto più correre alle Olimpiadi”.
Quando succede una cosa del genere che si fa? Ci si arrabbia tanto?
“Beh, non ero di certo contento. Ma poi pensi che hai altre gare da disputare e la sfortuna ci sta. Basta una curva bagnata per scivolare”.
E per vincere?
“Oltre che gambe e cuore, ci vuole una squadra forte. Le tappe non durano cinque minuti. Piove, c’è il vento e bisogna cercare di stare davanti senza stancarsi troppo”.
Lei ha tre figli, una femmina e due maschi. Come mai nessuno di loro ha seguito le sue orme?
“In realtà Ignazio per un certo periodo lo ha fatto. Ha corso anche il campionato italiano. Poi però quando si è sviluppato, ha messo su un fisico troppo possente per la bici e in salita faceva fatica. Correva anche per la Nazionale ma devi avere grinta, devi fare solo quello. Non esistono distrazioni, discoteche e cose del genere se vuoi correre davvero”.
Ha smesso a 37 anni, relativamente giovane, quando andava ancora forte. Come mai quella decisione?
“Sì, è vero, nella stagione 87-88 avevo anche fatto un nuovo record a Stoccarda. Ma a un certo punto vedi che arrivano i giovani e che a inseguire hai qualche difficoltà. Poi in realtà non ero così giovane. Molti ciclisti hanno smesso a 32 o a 33 anni. La prospettiva a quel punto è andare sempre un po’ peggio. In più cambiando le generazioni, cambia anche la mentalità. E magari ti ritrovi a mischiarti in cose che non ti appartengono. Io appartengo alla generazione cresciuta negli anni Cinquanta e Sessanta, avevo introdotto l’importanza di un certo tipo di allenamenti. Ma poi devi sapere dire basta. Mi sembra un’esagerazione affaticare troppo il fisico. E non mi pento di avere smesso: per 20 anni o fatto una vita eccezionalmente faticosa”.
Il nome di Moser sul finire degli anni Settanta è sempre stato contrapposto a quello di Beppe Saronni. Eravate due grandi rivali. Da cosa è nata questa contrapposizione?
“Il nostro fu uno scontro continuo. Lui era forte, io pure. Ci contendevamo il primato di ogni gara. E la stampa ci giocava sopra un bel po’. Se ci fossimo chiariti, entrambi avremmo vinto molto di più. Ma eravamo troppo diversi. E la rivalità arrivò al punto che si preferiva buttare via una corsa piuttosto che far vincere l’avversario. Una vera follia. Anche perché in qualsiasi posizione lui e io arrivassimo, la stampa parlava sempre e solo di noi”.
Oggi come sono i vostri rapporti?
“L’ho visto anche l’altro giorno a una manifestazione nella quale eravamo ospiti entrambi. Una volta che smetti, la rivalità finisce”.
E della fine di Pantani cosa ne pensa? Lo ha conosciuto?
“Certo che l’ho conosciuto. Una volta siamo anche andati insieme in vacanza ai Caraibi. Pantani in salita era davvero forte. Poi quando è successo quel fatto lì non ha saputo reagire. Quando hanno detto che le accuse contro di lui non erano vere, Pantani avrebbe dovuto subito ricominciare a correre. Poteva farlo. Non aveva nessuna squalifica. E invece lui è andato sotto a se stesso. Lui doveva solo dimenticare e ricominciare subito a vincere. E la squadra lo avrebbe dovuto convincere a correre di nuovo”.
La sua autobiografia ha dieci capitoli, uno per ogni bicicletta alla quale è legato. L’ultimo è dedicato alla FMoser, frutto di un brevetto rivoluzionario per una bici con prestazioni eccezionali sia nella versione tradizionale sia in quella elettrica. Ce la racconta?
“Ci sono già bici elettriche. Questa funziona in due modi, tradizionale ed elettrico. Basta cambiare la ruota di dietro. Io l’ho usata anche stamattina e devo dire che va benissimo perché è molto leggera, pesa appena 7 chili. Il vantaggio è evidente: la bici elettrica ti aiuta se non sei allenato, se vuoi fare una strada impegnativa in salita, se non vuoi fare sempre gli stessi percorsi pianeggianti. In pratica fai metà della fatica”.
Io pensavo che un campione come lei, emblema di spirito di sacrificio e fatica, fosse contrario alla “facilitazione” della pedalata assistita.
“Ma no, io ho 70 anni e non devo fare troppa fatica. Non fa bene spremere così tanto il proprio fisico. Qui davanti alla mia casa c’è la salita del monte Bondone: riesco ancora a farla ma credo sia meglio non sforzarsi troppo alla mia età. Ci sono persone che esagerano negli allenamenti. Fino a 60 anni, secondo me, è giusto. Dopo però può essere controproducente. In ogni caso con la bici elettrica devi pedalare”.
Ha vinto tre volte la Parigi- Roubaix, è stato l’uomo più veloce del mondo su bicicletta, il campione italiano a vincere di più. Che cosa sogna ora?
“Per tutta la mia vita ho continuato a lavorare in campagna e a produrre vino. Sogno di migliorare la qualità e la quantità di ciò che faccio. Come sempre”.

















