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Alessandro Piperno: "Sono un bastardo che ha approfittato del proprio dolore"

"Se sia possibile insegnare a scrivere? La risposta è no": videointervista allo scrittore premio Strega che contesta il ruolo di "tuttologi dall'alto" al quale molti intellettuali finiscono per aderire. "Sono per la vecchia sana torre d'avorio"

di Cinzia Marongiu   
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“Perdoni il cinismo, ma gli scrittori continuano a guardarsi in cagnesco e i sentimenti che ciascuno di noi prova per l’altro sono piuttosto ambigui e trasudano spesso anche di un certo risentimento. Com’è giusto che sia”. Alessandro Piperno è schietto, diretto, fino a quasi essere brutale nella sua squisita gentilezza. Scrittore, accademico, premio Strega 2012, si trova a due passi da piazza del Popolo a Roma dove ha sede l’Accademia Molly Bloom, un’enclave di intellettuali di rango, da Giovanni Veronesi a Emanuele Trevi, da Diego De Silva a Paolo Giordano, da Camilla Baresani a Marco Lodoli che sta per inaugurare il primo master biennale di Scrittura Creativa. E la domanda alla quale Piperno risponde con tanta dissacrante sincerità riguarda i rapporti che intercorrono tra gli straordinari docenti di questa accademia. “Ciò detto, questa scuola, grazie all’opera di Leonardo Colombati ed Emanuele Trevi, è riuscita a mettere insieme degli scrittori dei quali ho la massima stima e per alcuni di loro assoluta ammirazione, come nel caso di Sandro Veronesi. La cosa interessante di questa scuola sta nel fatto che le persone chiamate a insegnare agli studenti sono persone che parlano di cose che conoscono sul campo. Scrivere presenta una serie di problemi pratici quotidiani con cui noi ci scontriamo continuamente e l’idea che siamo stati noi i primi a viverli quei problemi credo che possa essere di esempio a chi si affaccia sulla ribalta della narrativa”.

Ma è possibile insegnare a scrivere?  
“Lei mi fa la domanda più vecchia del mondo per uno scrittore. E la risposta è no”. Una risposta che sembrerebbe contraddire il suo stesso ruolo di docente, ma poi aggiunge: “Quello che si può fare e che è la cosa più difficile per chiunque faccia questo mestiere, è trovare una propria voce. La voce esiste e se non c’è quella non ha senso fare questo lavoro. Il nostro obiettivo è maieutico, cercare di tirare fuori qualcosa che è dentro di noi. Tenendo conto che, checché se ne dica, scrivere è un immane sforzo e che quindi la via per chi fa questo mestiere è irta di errori e di false partenze”.

In una sua lezione al Festival della mente ha unito due scrittori apparentemente distanti come Primo Levi e Vladimir Nabokov in quanto entrambi hanno tratto ispirazione dalla Storia, quella che ha travolto le loro esistenze ma che allo stesso tempo ha permesso loro di scrivere dei capolavori come “Se questo è un uomo” e “Lolita”. Crede nell’ispirazione determinata dalla Storia? Visto che da due anni e mezzo ci viviamo immersi, prima con la pandemia e ora con una guerra molto vicina, le è venuta voglia di scrivere qualcosa al riguardo?

“È vero l’Ucraina è vicina. A questo proposito c’era un libro di Franco Cordelli che si chiamava “Guerre lontane” e alludeva al fatto che la sua generazione si era trovata a lavorare in un contesto in cui la Storia oltre a essere con la s maiuscola era molto lontana. Io ho qualche diffidenza nei confronti degli autori che si interessano in maniera troppo diretta della Storia. Credo che la Storia entri nell’opera di un grande autore con discrezione, quasi per caso. In quanto ai due scrittori sommi e antitetici come Levi e Nabokov, entrambi più che andarsela a cercare la Storia ne sono state vittime. E hanno reagito in modo diverso: mentre Nabokov tenta di esorcizzarla, nel caso di Levi c’è una tensione verso la testimonianza, come di un qualcosa che è tenuto a fare, che non può che fare. Personalmente non saprei che dirle. Raramente ciò che accade intorno a me mi condiziona. Avrei una certa difficoltà a scrivere qualcosa di narrativo che desse conto, per esempio, della pandemia. Credo che appartenga più alla cronaca che alla narrativa ma non escludo che tutto questo abbia inciso su di me e sulla mia ispirazione”.

In questi giorni anche il mondo dell’arte e della cultura non sono risparmiati dalla guerra e dalle divisioni in opposte fazioni. C’è stato il caso di Dostoevskj messo all’indice all’Università di Milano e poi precipitosamente reinserito e quello delle opere d’arte prestate dall’Ermitage di San Pietroburgo per alcune mostre in Italia e pretese indietro anzitempo. Secondo lei gli scrittori e gli intellettuali devono ricoprire un ruolo di fronte agli eventi che stanno travolgendo parte d’Europa? Se sì, quale?

“Credo nella vecchia sana torre d’avorio. Penso che gli intellettuali e gli scrittori che si impegnano pecchino in qualche modo di una certa tracotanza. Non credo che il solo fatto di aver passato la mia vita a leggere e a scrivere libri mi autorizzi a parlare di cose che conosco poco più di quanto non possa fare chiunque altro. Date le circostanze, quando sento parlare delle persone, preferisco riferirmi a degli esperti piuttosto che a dei tuttologi che giudicano dall’alto. La cultura deve tenersi lontana da questa roba, non deve essere usata e non deve farsi strumentalizzare . L’idea che le istituzioni in modo  grottesco e pomposo possano appropriarsi della cultura per un discorso vacuamente propagandistico mi ripugna. Ciò nondimeno, siamo tutti immersi nella Storia. E forse tra qualche anno tutto questo troverà modo di emergere sotto una forma trasfigurata che darà il senso di questi anni molto meglio di quanto lo possa dare la cronaca".

Lei ha detto di sentirsi ebreo tra i cristiani e cristiano tra gli ebrei, perennemente fuori posto in questo meticciato nel quale si è ritrovato fin dalla nascita. Questa dualità l’ha risolta in qualche modo oppure ha finito per piacerle?

“Lei sta mettendo il dito sulla piaga della mia malafede e della mia impostura. Nel senso che da un certo lato il fatto di essere il prodotto di un meticciato, un bastardo, come si sarebbe detto in termini non politicamente corretti, mi ha causato diversi rivolgimenti di coscienza soprattutto negli anni dell’adolescenza. Ma evidentemente negli anni successivi, come avrebbe fatto ogni scrittore, ho cercato di usare questa condizione a mio vantaggio. Quindi è chiaro che oggi la vivo con molta più serenità. Diciamo che nel corso degli anni il mio dolore privato è diventato una griffe in cui tendo a identificarmi”.

di Cinzia Marongiu   
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