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Mezzo spia e mezzo imbroglione, l'Arsenio Lupin ante litteram che fece la truffa dei quadri italiani nel '49: l'inchiesta

Un'inchiesta pubblicata nel libro "Bottino di guerra" potrebbe contribuire a rivitalizzare l'iniziativa giudiziaria. Una storia degna di un thriller. I quadri sarebbero poi stati illegalmente esportati in Germania, soffiati sotto il naso dei Monuments men a Berlino da un faccendiere croato e trasferiti a Belgrado dove ancora si trovano

di Tiscali Cultura/Enzo Quaratino, Ansa   
Mezzo spia e mezzo imbroglione, l'Arsenio Lupin ante litteram che fece la truffa dei quadri...

Si tratta di una storia incredibile, intrigante e più appassionante di un thriller. Una truffa transnazionale di quadri d'autore acquistati dai nazisti quasi tutti a Firenze, passati illegalmente per la Germania e infine finiti a Belgrado, dove tuttora si trovano, senza che l'Italia sia finora riuscita ad averli in restituzione: un raggiro in grande stile, dunque, i cui dettagli sono raccontati, con i caratteri propri dell'inchiesta giornalistica, nel libro appena uscito Bottino di guerra (Mursia editore, 295 pagine, 18 euro), di Tommaso Romanin e Vincenzo Sinapi, entrambi cronisti dell'Ansa.

I quadri al centro della contesa non sarebbero otto, come si è ritenuto finora, ma - secondo i due giornalisti - più del doppio: sarebbero infatti 17, se non addirittura 19, risalenti al XIV, XV e XVI secolo.

L'incredibile storia

La storia comincia quando Germania e Italia erano amiche, e alcuni nazisti innamorati di arte acquistarono una serie di dipinti in prevalenza a Firenze. I quadri sarebbero poi stati illegalmente esportati in Germania, soffiati sotto il naso dei Monuments men a Berlino da un faccendiere croato e infine incamerati dal Museo nazionale serbo, a Belgrado, dove tuttora si trovano.

I carabinieri della Tutela patrimonio culturale ne hanno individuati appunto otto e la magistratura di Bologna ne ha chiesto per anni, inutilmente, la confisca. La truffa viene preparata per mesi e si consuma in due giorni, il 2 e il 10 giugno 1949, quando 50 quadri, otto icone e una gran quantità di oggetti antichi e preziosi - tappeti, arazzi, candelabri, monete - in tutto 166 articoli, lasciano per sempre il palazzone di Monaco di Baviera dove gli Alleati avevano stipato l'arte saccheggiata dai nazisti nei Paesi occupati.

Il personaggio da film

Ante Topic Mimara, mezza spia e mezzo imbroglione, si presenta al Central collecting point come "Rappresentante jugoslavo per le restituzioni, le belle arti e i monumenti" e si fa consegnare i quadri con la complicità, secondo l'accusa, di una giovane funzionaria tedesca del Centro, frau Wiltrud Mersmann, che poco dopo sarebbe diventata sua moglie.

I beni raggiungono in treno la Jugoslavia e nel mese di luglio del '49, attraverso una fumosa Commissione per i risarcimenti dei danni di guerra, vengono incamerati dal Museo nazionale di Belgrado. Solo che quei 166 oggetti non appartengono alla Jugoslavia. Gli americani se ne accorgono quasi subito e li chiedono indietro, ma invano. Poi, per evitare tensioni diplomatiche con Belgrado e che il mondo venisse a conoscenza della brutta figura, dopo qualche anno desistono. I quadri rimangono per decenni stoccati nel Museo nazionale di Belgrado, chiuso per restauro per un lungo periodo durante il quale le opere sono state inventariate e catalogate, ironia della sorte, proprio con la collaborazione del Governo italiano e di alcune Sovrintendenze. Che con le opere restaurate organizzano delle mostre anche in Italia. Proprio da una di queste prende le mosse l'inchiesta della procura di Bologna che porterà i magistrati a chiedere, invano, la restituzione di otto quadri di proprietà dello Stato italiano e, a loro avviso, illegalmente detenuti a Belgrado.

L'appuntato dei carabinieri

Succede infatti che nel 2014, compulsando il web in una ricerca qualunque, un appuntato del Nucleo Tutela patrimonio culturale di Firenze si imbatte in un quadro esposto in una rassegna allestita a Bari e a Bologna dieci anni prima, tra il 2004 e il 2005.

Quel quadro però non doveva trovarsi lì: acquistato da Goering, il braccio destro di Hitler, durante la Seconda guerra mondiale, era stato illecitamente esportato in Germania. Le indagini successive aprono il vaso di Pandora del Museo di Belgrado, dove i Carabinieri scoprono altri sette dipinti che avevano fatto lo stesso percorso: un Ritratto della Regina Cristina di Danimarca, di pittore lombardo del XVI secolo, con suggestioni da Tiziano; una Madonna con Bambino e donatore (1565 circa) attribuita a Jacopo Tintoretto; due quadri della scuola di Vittore Carpaccio raffiguranti San Rocco e San Sebastiano (prima metà del XVI secolo); una Adorazione del Bambino con Angeli e Santi (XV-XVI secolo) di pittore lombardo; una Madonna con Bambino (1320-1324) dell'ambito di Paolo Veneziano; una Madonna con Bambino, Santi, Annunciazione, Crocifissione (XIV secolo) di Paolo di Giovanni Fei e una Madonna con Bambino in trono (XIV secolo) di Spinello Aretino. Tutti e otto - gli "otto prigionieri di guerra" - facevano parte dei 166 oggetti portati via con il raggiro dal Collecting point di Monaco di Baviera: i carabinieri e gli inquirenti bolognesi hanno ricostruito tutto, ma nonostante due rogatorie per eseguirne il sequestro e una sentenza di confisca, le autorità serbe hanno risposto picche e i quadri si trovano sempre al loro posto, a Belgrado.

L'importanza dell'inchiesta

La partita non può considerarsi chiusa e ora l'inchiesta pubblicata in "Bottino di guerra" potrebbe contribuire a rivitalizzare l'iniziativa giudiziaria. Una delle curatrici del Museo serbo ha infatti dichiarato che, nel luglio del 1949, dalla Commissione per i risarcimenti di guerra furono acquisiti 56 dipinti ed icone, di cui 46 confluirono nella raccolta d'arte straniera.

Incrociando i risultati delle indagini dei Carabinieri, l'analisi di documenti americani del dopoguerra da poco desecretati, quelli degli archivi federali tedeschi, i cataloghi di mostre e musei, e le informazioni raccolte sul posto, a Belgrado, Romanin e Sinapi hanno scoperto non solo che quasi tutti i quadri in questione sono tra quelli portati via con l'inganno da Mimara, ma che 19 fanno ora parte della collezione italiana del Museo: oltre agli "otto prigionieri", la cui storia è nota, ce ne sono altri 11 che potrebbero appartenere al patrimonio dello Stato italiano.

di Tiscali Cultura/Enzo Quaratino, Ansa   
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