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The Bear, una bellissima serie Tv

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The Bear, una bellissima serie Tv

Blake Snyder è stato uno dei grandi guru americani della sceneggiatura. Dopo avere lavorato per anni come consulente per molti dei più importanti Studios hollywoodiani, ha scritto un manuale di sceneggiatura agile e divertente intitolato Save the cat!.

Save the cat (salva il gatto) è il nome che Snyder dà a una particolare scena che, secondo lui, dovrebbe essere presente in ogni film. È quella in cui noi spettatori incontriamo per la prima volta il protagonista (l’eroe per Snyder) e lui fa qualcosa di eroico – come, per l’appunto, salvare il gatto – che definisce il suo carattere e fa in modo che noi spettatori simpatizziamo istantaneamente per lui.

Nel libro, edito in Italia da Omero, Snyder divide il film in 15 tappe, che lui chiama beats e che valgono, ovviamente, anche per le serie televisive.Si inizia con Scena di apertura a cui seguono Esposizione del tema, Set-up e Catalizzatore (il momento in cui accade l’evento che darà il via al film) e si chiude con Scena finale, che, in un copione scritto bene, dovrebbe essere in qualche modo uguale o contraria a quella iniziale.Al numero 11, tra Arrivano i cattivi e La notte oscura dell’anima, Snyder inserisce il beat Tutto è perduto:

“E’ il momento del copione che più spesso viene definito “falsa sconfitta”, poiché anche se tutto sembra nero, è solo una situazione transitoria. Eppure, sembra una sconfitta totale: la vita dell’eroe va a pezzi sotto tutti i punti di vista, il disastro incombe, non c’è più speranza. (…) Il beat “Tutto è perduto” è il momento della “Crocefissione”: è il momento in cui il vecchio mondo, il vecchio personaggio, il vecchio modo di pensare, muoiono. Solo dopo questo punto può avvenire la fusione di tesi (ciò che era) e antitesi (la sua versione capovolta) che creino la sintesi, un nuovo mondo, una nuova vita”.

The Bear

In The Bear, la serie di cui parliamo oggi, questo beat occupa un intero episodio, il penultimo, che si intitola La Recensione e che è, non a caso, il migliore della prima stagione.

È qui che, in seguito a una recensione positiva della paninoteca in cui è ambientata la serie, deflagrano in maniera plastica e dirompente tutti i conflitti sopiti o meno, introdotti nei primi sette episodi, preparandoci allo straordinario inizio dell’episodio seguente. E’ l’ultimo, quello in cui va in scena il beat numero 11: La notte oscura dell’anima, e si assiste al gran finale.

Il tema del figliol prodigo

Ma procediamo con ordine.Il tema alla base della serie è quello classico del figliol prodigo. Non particolarmente originale, direte voi. E invece sì: è il come si sviluppa il tema a fare la differenza.

The Bear racconta la storia di Carmen “Carmy” Berzatto, interpretato da uno straordinario Jeremy Allen White (già Lip Gallagher in Shameless, altra serie ambientata a Chicago) che lascia il mondo dell’alta ristorazione, dov’era una promessa avendo appena vinto il premio come giovane chef dell’anno, per tornare a casa a gestire The Original Beef of Chicagoland. Si tratta della scalcagnata paninoteca di famiglia che il fratello Michael, morto suicida, gli ha, inspiegabilmente, lasciato in eredità.

A Chicago

La paninoteca è piena di debiti, Michael non pagava i fornitori da mesi e, poco prima di spararsi, si era fatto prestare 300.000 dollari da uno strozzino di nome Cicero (nome non casualmente brechtiano: Chicago è pure sempre la città in cui il commediografo tedesco ha ambientato La resistibile ascesa di Arturo Ui).

Carmy cerca come può di risollevare l’attività di famiglia, innestandovi tutta una serie di idee, mutuate dal suo essere un grande chef, che infastidiscono il cugino Richie, il miglior amico di Michael. Lui, che lavora lì da anni e che avrebbe voluto gestire il locale, detesta i cambiamenti. Definisce l’alta cucina: “pinzette e foie gras”. Vorrebbe che tutto rimanesse com’era: con gli spaghetti al sugo – che Carmy toglie subito dal menù – e gli operai, la gente normale, come clienti, invece degli hipster e dei professionisti che iniziano a frequentare The Original Beef of Chicagoland dopo il cambio di gestione.

Carmy non lo ascolta: lui vuole cambiare tutto, anche se è chiaro fin da subito che lo fa per i motivi sbagliati, per una sorta di rivincita nei confronti del fratello morto, che se n’è andato senza una parola e che gli aveva sempre impedito di lavorare nel locale.

Gli altri in cucina

Intorno a lui si muovono tutta una serie di personaggi uno meglio caratterizzato dell’altro. Richie, di cui abbiamo già detto, è un pazzo scatenato che tiene una pistola in cucina, dentro un barattolo e che, all’occasione spaccia droga nel vicolo dietro la paninoteca.Sidney è una chef talentuosa che si presenta al ristorante per un giorno di prova e che è un po’ il gatto da salvare di Carmy. Lui non la salva, ma la assume definitivamente come Sous Chef alla fine del primo episodio, conquistandosi così la nostra definitiva simpatia.

Poi c’è Marcus, il fornaio, poi pasticcere, ossessionato dalla creazione della ciambella perfetta a cui dedica ogni momento libero, arrivando perfino a dormire nella cucina della paninoteca pur di potersi dedicare anima e corpo a questo obiettivo.E Neil, uno strano tipo in grado di riparare tutto quello che si rompe.

Che c’entra l’orso?

La serie parla di cucina, ma il vero tema è quello del lutto e della sua rielaborazione, dei sensi di colpa – sviscerati da Carmy in uno straordinario monologo all’inizio dell’ultimo episodio – e della voglia di rivalsa.

Inizia con Carmy che sogna di avvicinarsi a una gabbia, dentro cui c’è un grosso orso (metafora del peso che la morte del fratello gli ha scaricato addosso) che lo attacca, e finisce…No, come finisce non ve lo posso dire. Quello che posso dire è che la fine rispetta i dettami Snyder, ricollegandosi all’inizio, pur mantenendo aperta una forte prospettiva seriale. La serie è stata rinnovata per una seconda stagione.

Il cast è da urlo

Jeremy Allen White ha vinto per la sua interpretazione di Carmy sia il Golden Globe che il Critics’ Choice Awards, giusto pochi giorni fa. La scrittura è solida, la sceneggiatura è sempre allusiva e mai didascalica. Mentre i dialoghi riescono a ricreare in maniera per nulla artificiosa – come accade, invece, a una serie come Succession – la lingua parlata, che è poi il miglior complimento che si possa fare a dei dialoghi.

La regia è frenetica e ansiogena: i primi due episodi sono un tour de force. Poi ti abitui, ma senza mai scendere da una montagna russa emotiva, veramente ben costruita.La fotografia esalta le scene di cucina che sono tesissime e comprendono anche l’inserimento di fotogrammi, di piatti e brevi video che sottolineano in maniera efficace il momento emotivo e la psiche dei personaggi in scena.Anche le immagini di Chicago che, messe tra una scena e l’altra, che normalmente sarebbero solo un riempitivo. Qui invece entrano a far parte del racconto, con una serie di effetti che hanno più a che fare con la video art e i videoclip, piuttosto che con una serie tv (vedi qui il trailer).

Ma non è una commedia!

Un’ultima notazione. Non lasciatevi fuorviare dal fatto che The bear sia stata nominata sia ai Golden Globe che ai Critics’ Choice Awards come migliore serie Musicale/Commedia perché qui nessuno canta o suona e tutto ciò che succede ha ben poco a che fare con la commedia. Si sorride, certo, ma poco. Per la maggior parte del tempo si sta in ansia, si soffre e ci si commuove. The bear è una serie drammatica, punto. E se proprio gli americani non vogliono togliere questa sorta di suddivisione presente nei maggiori premi televisivi, almeno mettessero le serie nelle categorie giuste. Non è che solo perché gli episodi durano 30 minuti una vada necessariamente inserita tra quelle comiche.

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