Ho indugiato per lungo tempo prima di iniziare a leggere questo libro, lasciandolo sugli scaffali della libreria per mesi prima di aprirlo. Forse perché mi era stato regalato personalmente da Angelo Gaja, in una mistica giornata di ottobre a Barbaresco. Quindi per me era più una reliquia che una lettura. Il fatto che fosse stampato e distribuito dalla Gaja distribuzione, confesso, non giocava a suo favore. Sarà che noi Italiani siamo portati a pensar male, temevo si realizzasse in una semplice apologia della cantina. Ma al termine del primo capitolo sentivo di nuovo la terra della Langa sotto i piedi e il nebbiolo nel sangue. Perciò mi sono pentita di non averlo aperto prima. Parere personale: è un bel libro che però poteva essere scritto meglio. Forse a causa della traduzione, dato che l’edizione originale è in lingua inglese, oppure dello stile che risulta un po’ caotico. Troppi voli pindarici e dubbi espedienti narrativi. Nonostante questo, è talmente ricco di spunti interessanti che vale la pena di leggerlo.
Biografia di Gaja o di un vino?
Il vino in questione è il Barbaresco, eccellenza piemontese nel mondo, e il Sorì è il nome dialettale con cui, nelle Langhe, si intendono i vigneti esposti al sole. Sorì San Lorenzo parla della nascita di un grande vino, come spiega Edward Steinberg, l’autore del libro, professore all’Università di Harward. Tanto amante del nostro Paese, da sceglierlo come sua dimora permanente. Parliamo quindi della biografia di un vino specifico, proveniente da un cru ben preciso. L’eccellenza di un prodotto che prende forma nella nostra mente, pagina dopo pagina, storia dopo storia.
Angelo Gaja e Daniela CassoniLa storia di un Territorio e della sua cultura contadina
Un libro che inizia parlando di persone, degli appartenenti alla famiglia Gaja certo, ma anche di contadini, nonni, aiutanti, vignaiuoli. Sullo sfondo Le Langhe, territorio vocato per eccellenza alla viticoltura. Non come le vediamo adesso, ma come erano al tempo di Giovanni Gaja, il fondatore dell’azienda agricola. Per chi non abbia origini piemontesi, è difficile riuscire ad immaginare i vigneti nel periodo del secondo dopoguerra. Il grano coltivato in mezzo ai filari, il vino senza valore, il costoso suolo abbandonato all’incuria e gli animali al pascolo fra i vigneti. Eppure, era proprio così. Conoscere questa storia ci rende ancor di più il valore degli attori che hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione della percezione del vino italiano nel mondo. E’ la storia di un’ascesa straordinaria, consacrata nel 1991 quando, nella sala del New York Wine Experience, il pubblico in piedi acclama il Barbaresco di Angelo Gaja. Il bis-nipote di Giovanni, era riuscito, insieme a pochi altri, a far rivalutare la patria bevanda a livello internazionale. Il vino italiano, fino a quel momento, era stato, a dir poco, considerato un prodotto di serie B. Come si è giunti a questo grande risultato? Con lo studio e la perseveranza, ma anche con un coraggio fuori dal comune. Il coraggio di voler innovare, modernizzare ed internazionalizzare il vino. E questo è indubbiamente merito della personalità di chi il vino lo ha pensato, prima di realizzarlo.
La voce di chi lavora la terra
E allora andiamo in vigna, su quella porzione di collina, vicino al villaggio di Barbaresco, chiamata Sorì San Lorenzo. Un vigneto esposto in modo particolare, diverso da tutti gli altri, con i filari che tagliano la collina orizzontalmente, le foglie di colore diverso dagli appezzamenti adiacenti. Sul San Lorenzo cresce il Nebbiolo. Un vitigno così intimamente collegato al suo cru, da legittimare pienamente un saggio dedicato alla nascita di un vino. La voce dei vignaioli, di chi da anni lavora su questi terreni, con queste viti, ci porta alla scoperta dei meccanismi e delle intuizioni che, miste alla conoscenza, creano quell’intimo rapporto fra uomo e natura. L’idea di dare una voce a chi la terra la lavora, a chi crea un grande vino controllandone ogni singola fase, è ottima. Espediente che, se da un lato ci aiuta a calarci nel lavoro vero in vigna o in cantina, dall’altro sembra conferire ai soggetti un’aura quasi metafisica, forse troppo. Nonostante questo, le fasi di produzione di questo grande vino sono rese intellegibili come se effettivamente avessimo trascorso due anni nascosti nella cantina di Gaja ad osservare questi uomini (e donne) al lavoro.
La nascita di un grande vino non ha nulla di miracoloso
Un grande vino scaturisce da un ossessivo lavoro di ricerca dell’eccellenza. Partendo dall’idea del vino che si vuole realizzare, si determina la scelta del terreno, dei portainnesti, delle tecniche di allevamento. Si deve tenere conto della composizione del cru e di come questo influirà sull’espressione delle caratteristiche varietali dell’uvaggio. Tutto, dalle scelte di coltivazione, di potatura, di monitoraggio delle maturazioni chimiche, al momento della vendemmia, avrà un effetto. Dalle tecniche di raccolta, alla scelta delle pratiche di cantina. Dalla selezione del legno nel quale elevare il vino, a quella della forma e tipologia della bottiglia, fino al tappo di sughero. Tutto questo concorre all’ottenimento dell’eccellenza. Ma nulla inciderà sulla qualità dell’annata come l’azione di madre natura. Le condizioni climatiche che rendono un vino grande in una annata piuttosto che in un’altra. Questo piccolo trattato-romanzo è dunque, un vero e proprio viaggio, in un anno particolare, per dare alla luce, o meglio, al buio di una cantina, un vino eccezionale.
Impossibile non abbinare questo libro ad un bicchiere di Barbaresco
Il Nebbiolo è l’unico vitigno ammesso dal disciplinare per produrre il Barbaresco DOCG nella versione classica e riserva. Si tratta, dunque, di un vitigno difficile, paragonabile nella sua sensibilità solo al Pinot Noir. Il Nebbiolo è uno dei più importanti vitigni autoctoni italiani, dalla cui vinificazione in purezza si ottengono Barolo, Carema, Nebbiolo d’Alba. Si utilizza in miscelazione con altri vitigni per produrre altri importanti vini del Piemonte e della Valtellina. La zona di produzione comprende Barbaresco, Neive e Treiso tutti in provincia di Cuneo, Piemonte. Come abbiamo già compreso la provenienza delle uve condiziona totalmente l’espressione finale del vino. I vini provenienti dai colli di Barbaresco e Neive sono caratterizzati da grande struttura, pienezza e potenza tannica, bilanciati da morbidezza. Sono molto ricchi in sentori fruttati e dotati di estrema finezza. I vini prodotti da uve provenienti dai colli di Treiso sono più legati alla finezza e all’eleganza, che alla struttura. Ma non basta, ogni singola zona presenta porzioni di vigneto caratterizzati da terreni in composizioni uniche ed esposti diversamente agli agenti climatici. La variegata zonazione territoriale ha quindi dato vita a quasi ottanta tipologie di Barbaresco diverse, che si esprimono in “menzioni aggiuntive” riportate in etichetta. Per diventare Barbaresco DOCG, il nebbiolo deve subire un affinamento di almeno 26 mesi di cui 9 mesi in legno. La denominazione Superiore prevede invece almeno 50 mesi di affinamento di cui almeno 9 in legno.
Il Barbaresco è un grande vino
La sua importante struttura lo rende espressivo ed emozionante. Il colore è rosso granato con riflessi rubino. Il vino predilige i lunghi affinamenti, dopo i quali si presenta con un colore chiaro, virante all’aranciato. Le note olfattive sono complesse, ampie e persistenti, decisamente emozionanti. Rosa, violetta, geranio, fiori di campo, ciliegia, mela, pesca fresca e disidratata, vaniglia e cannella. Il fruttato e floreale della gioventù vira con l’affinamento verso note eteree più affascinanti e speziate. Al gusto si presenta, al contempo, gentile e robusto. La potenza si ingentilisce e si affina con l’invecchiamento. In abbinamento con il cibo esprime tutto il suo potenziale. Eccezionale con gli arrosti, la selvaggina, la carne alla griglia, come anche quella in umido. Formaggi stagionati, tartufo bianco, funghi e ortaggi autunnali. Zuppe di legumi trovano nel Barbaresco un formidabile alleato. Un vino contadino, insomma, che ci stupisce con l’eleganza di un raffinato signore.
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