Pura razza bastarda, quando la mafia sbarca a Milano. La contaminazione tra fiction e divulgazione storica
Nel panorama della narrativa pubblicata negli ultimi decenni abbiamo visto affermarsi sempre più la tendenza a proporre romanzi con contaminazioni tra generi diversi. La riuscita o meno di queste opere non può che essere legata al grado di soddisfazione che la loro lettura offre agli appassionati dei generi ibridati.
Se uno è un appassionato lettore di gialli e si trova a leggere un libro in cui il filo conduttore è una buona trama gialla, che questa sia immersa in una cornice storica diversa dall’attualità non dovrebbe dargli alcun problema. Viceversa, l’appassionato di romanzi storici apprezzerà più la verosimiglianza della cornice che il rigore dell’intreccio.
Va da sé, dunque, che per giocarsi la possibilità di piacere a entrambi i lettori, l’autore dovrà curare con altrettanta attenzione entrambi gli aspetti.
Pura razza bastarda
Pura razza bastarda di Paolo Grugni, uscito nel 2018 ad opera dell’intraprendente e dinamica casa editrice Laurana, è un classico esempio di contaminazione tra fiction poliziesca e divulgazione storica. Non a caso, in appendice al libro, l’autore riporta una bibliografia di riferimento che conta addirittura 84 titoli (da Mafia e politica di Michele Pantaleone del 1962, a Il bandito Cavallero di Giorgio Bocca del 2016), senza contare gli archivi dei quotidiani consultati.
L’elemento storico, tuttavia, resta sullo sfondo di una trama poliziesca che per certi versi sembra appartenere allo stesso genere della famosa fiction tv La piovra, però è più solida e molto meno melodrammatica. Anche qui abbiamo un commissario che prende di petto la mafia, ma non ci troviamo nella Sicilia degli anni ’80, bensì a Milano tra il 1965 e il 1967. E il commissario Sergio Malfatti non sembra destinato ad affrontare le stesse vicissitudini familiari e sentimentali del suo collega Cattani (leggi anche qui).
Tra il commissario Cattani e il commissario Pepe
Classe 1919, ex partigiano e boxeur dilettante, con simpatie politiche di sinistra che lo fanno apparire sospetto agli occhi dei superiori, separato e legato a una donna indipendente pur senza convivere con lei, il commissario Malfatti appare più simile a Il commissario Pepe del romanzo di Ugo Facco De Lagarda, reso celebre dall’omonimo e indimenticabile film di Ettore Scola.
Il commissario Malfatti frequenta abitualmente librerie, teatri e cinema, anche se non dimostra troppa simpatia per gli intellettuali alla moda e, ai film di Michelangelo Antonioni preferisce il Milan di Gianni Rivera.
La scelta degli anni in cui si svolgono le vicende non è casuale. La metà degli anni ’60 è appunto il periodo in cui la delinquenza organizzata è partita alla conquista della capitale economica del Paese, favorita dalla complicità più o meno consapevole di una classe dirigente di affaristi cui importa solo che il denaro in circolazione sia tanto e non guarda alla sua provenienza. Inoltre questa è amichevolmente tollerata anche dal potere politico con cui ha già da tempo un rapporto di scambio di favori che si è rivelato proficuo per ambo le parti.
La mafia sbarca a Milano
Il problema è che la mafia che sbarca a Milano si porta dietro gli stessi inconvenienti che la caratterizzano in Sicilia. I diversi clan non si mettono mai d’accordo, puntano a cannibalizzarsi l’un l’altro e i morti ammazzati sono all’ordine del giorno. In una situazione del genere, le forze dell’ordine non possono fingere di non vedere.
Malfatti viene risucchiato in questo vortice indagando su quelli che inizialmente sembrano banali ma sgradevoli delitti di malavita spicciola. Un allibratore trovato morto avvelenato nei bagni dello stadio San Siro, uno studente dalla vita senza segreti, ucciso di botte davanti a un bar. I primi sospetti, identificati per entrambi i delitti, fanno una brutta fine prima ancora che si riesca a indagare su di loro.
Man mano che si va avanti, però, agli inquirenti sembra di scoperchiare una serie di vasi di Pandora disposti, come scatole cinesi, uno dentro l’altro. Ci sono due clan mafiosi che si contendono l’egemonia su tutto: il racket, le scommesse clandestine, il traffico di sigarette, quello di droga e perfino quello di armi ed esplosivi. Da qui parte una pista che conduce direttamente al terrorismo nero.
Prima della strategia della tensione
L’infiltrazione mafiosa è infatti solo una delle tante questioni sul tavolo. Il periodo, non dimentichiamolo, è quello immediatamente precedente all’inizio della strategia della tensione. Gli scontri davanti al Teatro Lirico e la bomba di Piazza Fontana seguiranno di lì a poco. Siamo a metà strada tra il Piano Solo del 1964 e il golpe Borghese del 1970. Si comincia a parlare di servizi segreti deviati e di collusione tra politica nazionale – dunque non più solo locale – e criminalità organizzata.
Lo stesso Malfatti, nel tempo, si rende conto di essere una pedina di un gioco molto più grande di quanto potesse credere. Succede, ad esempio, quando tira dentro le sue indagini degli insospettabili ben protetti in alto loco e rischia ogni volta conseguenze pesanti. Ma ogni volta la fa franca perché evidentemente qualcuno gli copre le spalle. E anche per questo – come si vedrà più avanti – c’è un secondo fine.
Comunque, se i pesci piccoli finiscono quasi sempre per fare una brutta fine, il destino di quelli grandi è di essere assolti, o condannati solo simbolicamente da processi di solito alterati dall’opportuna scomparsa di testimoni chiave.
La forma diaristica
Nella lunga narrazione (578 pagine) si dipanano e talvolta si accavallano diverse sotto-trame, alcune delle quali si concludono in modo definitivo mentre altre restano aperte, in previsione di un seguito.A rendere più agevole la lettura è la sua forma diaristica, fatta di annotazioni brevi ed essenziali, nelle quali il ritmo si fa incalzante quando gli avvenimenti accelerano ma lascia il tempo di metabolizzare i dettagli se è il momento di fermarsi a riflettere.
Il protagonista, che scrive in prima persona al presente, non è del genere “me la suono e me la canto”, ma anzi è perennemente dilaniato da ogni sorta di dubbi. Qui vengono in mente opere importanti e sottovalutate del ‘900, come Diario di un giudice di Dante Troisi, o L’uomo in bilico di Saul Bellow. E questo può indurre nel lettore un senso di partecipazione tale da ridurre al minimo la distanza tra chi scrive e chi legge.