Ci sono alcuni temi in cui l’incrocio fra vissuto, inconscio e narrazione corrono il rischio di tramutarsi in una sorta di bradisismo intellettuale dagli esiti imprevedibili. Quello del rapporto con la propria madre, ad esempio, è appunto una perfetta lastra di ghiaccio scivolosa, sulla quale è facile prendere velocità, ma assai più complicato gestire la frenata.
Il primo merito dello straordinario libro di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, è quello di aver saputo maneggiare un argomento del genere con la naturalezza dello scrittore capace di attingere alla tradizione per trasformarla in una sorta di specchio alla rovescia in cui scorgere i tratti di ciò che si è diventati.
Antonio Franchini
Per questo, a differenza del solito, mi piace scivolare subito alla conclusione.Il fuoco che ti porti dentro è il romanzo di uno degli editor più bravi del panorama internazionale – una lezione vivente per far capire che leggere tanto serve a scrivere meglio – non avvince solo per la capacità di delineare in modo impareggiabile pensieri, parole, opere e omissioni di sua madre Angela, ma per riuscire attraverso il rapporto con lei a fornire il proprio frammento d’interpretazione della vita e del tempo che la innerva.
Un senso universale racchiuso in una storia di famiglia spiegata quasi sempre, nei discorsi diretti, attraverso l’utilizzo di un dialetto (linguaggio?) napoletano d’autore.
Staccarsi dalle pagine di Franchini, anche quelle più dolorose, non riesce possibile, e non perché ci si diletti nel gioco delle differenze e delle somiglianze (mia madre era meglio o peggio?). C’è molto di più. Il lettore non è chiamato a giudicare perché per lui lo fa l’autore, in modo quasi sempre impietoso con la madre (“mia madre mi fa schifo”, “mi vergogno di mia madre”, ripete sovente), ma anche con se stesso, soprattutto quando gli anni forniranno all’emigrante a Milano le necessarie valigie cariche di esperienza e sfumature interpretative.
L’incipit è folgorante
“Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza. Tra noi se ne parla senza allusioni. “Pare ‘e trasì dint’ ’a grotta d’ ‘o cane”, dice mio padre uscendo dalla camera da letto alla fine del loro riposo pomeridiano. Si riferisce a un passaggio sotterraneo nella solfatara di Pozzuoli, dove i miasmi di anidride carbonica ristagnano sotto l’altezza del metro di altezza lasciando indenne l’essere umano ma soffocando il cane che s’avventuri incauto per quel budello. Forse è la vasta cicatrice slabbrata che le devasta il suo ventre operato poco dopo la mia nascita, a giustificare il marciume che le fermenta dentro, a giustificare il fetore inconfondibile che rende vana l’ultima risorsa di chi scorreggia: addossare la colpa a un altro. Lei del resto neppure ci prova, e a ogni sfiato, che l’allerta familiare immediatamente rimarca con risate e schiamazzi, fa sempre seguire una smorfia di rivendicazione soddisfatta il cui significato è: di questa putredine io mi sono liberata, adesso respiratela voi”.
Notate il piano inclinato della narrazione. Il fatto che sua madre sia considerata una bella donna (però da altri) è solo incidentale rispetto alla puzza, sviscerata in tutti i suoi esiti, anche se però la giustificazione, fra le righe, è sottesa: l’operazione chirurgica che le ha devastato il ventre.
Il cattivo odore è solo la materializzazione di una presa di distanza che è assai più psicologica che fisica. Chi scrive avrebbe voluto un tipo di madre diversa ed è (anche) per questo che a diciannove anni se ne va di casa (“per non vederla più”).
Il messaggio non potrebbe essere più esplicito
“La detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta al mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto – quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista – faceva, diceva e pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva e non pensava. Mi ha dato una educazione a rovescio: i valori a cui si ispira o li esprime in forma riprovevole o sono dei disvalori veri e propri”. D’altronde, “forse per lei il bene e il male non esistono”.
Per Angela non esiste l’amicizia, ma il sospetto e la lite permanente. Le donne – madre e figlie comprese – o sono approfittatrici, stupide oppure “zoccole”. Gli uomini quasi sempre “scostumati o stronzi”. Con il marito, infatti, l’accordo vero si può trovare solo in due luoghi della casa: “a tavola e in camera da letto”.
Angela di se stessa dice: “Sono una sgherra”, rivendicando quelle ascendenze sannitiche in grado di far piegare anche i Romani. Fa la casalinga, ma poiché ha frequentato il liceo classico, crede di essere superiore alle maestre, che ritiene “cretine”. D’altronde Franchini lo dice chiaro: “Ha bisogno di odiare come di respirare”. E non fa sconti a nessuno, neppure ai figli, che tormenta da giovane con l’autorità e da anziana con i sensi di colpa.
La tenerezza negli sguardi delle madri degli altri
La morte del padre (manovale, “ma con le stesse competenze di un architetto di oggi”, secondo lei) e della sorella la segnano e paiono regalarle tratti di nobiltà, anche se l’educazione della madre – così simile a lei, ma più gaudente – la marchiano di un imprinting feroce, che esclude la tenerezza.
Una tenerezza che invece Franchini conosce per averla letta negli sguardi delle mamme dei suoi amici o nelle parole di poeti, il cui ricordo affiora come contrappunto alle rasoiate che riserva al mondo Angela.
La sua non è la genitrice di Salvatore Quasimodo, che nella sua Lettera alla madre sapeva scriverle “Mater dolcissima”, ringraziandola per “l’ironia che hai messo sul mio labbro, mite come la tua” e avvisando addirittura la morte di “non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro, tutta la mia infanzia è passata sul suo quadrante, su quei fiori dipinti”.
Per il poeta c’è evidentemente un connubio fra la madre e la felicità di un tempo trascorso. Un tempo che, pare chiaro, a Franchini (leggi anche qui) è stato negato. Così come gli è stato negato il senso di speranza che ritrova nei versi di Giuseppe Ungaretti, nella poesia La madre in cui descrive questa figura totemica che, dopo la morte del figlio, lo “prenderà per mano” per impetrare il suo perdono all’Onnipotente e solo dopo averlo ottenuto:
“Ricorderai d’avermi atteso tanto, e avrai negli occhi un rapido sospiro”.
Tocca al tempo aprire gli orizzonti
L’amara ironia di Franchini è chiara: “Giudicare chi? Perdonare che? L’etica e la morale che cosa sono” per lei?Lo scrittore capisce presto che da Angela non potrà mai aspettarsi tutto questo, neppure quando, da anziana, la donna pretenderà di raggiungerlo a Milano – che non sopporta – per incollarsi alla sua vita come un parassita senza gratitudine.
E allora che cosa resta? Al di là della lucida narrazione degli eventi e della psicologia della protagonista e dei comprimari che le ruotano attorno come un coro di tragedia greca quasi sempre inascoltato, in che modo a un certo punto tutti potremmo ritrovarci per certi versi uniti, diremmo persino fratelli, sia pure nati da madri profondamente diverse?
Tocca al tempo aprire gli orizzonti. È compito degli anni che passano far capire che non tutto si è capito.
“Ma che ne ho saputo io di lei per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza e della sua maturità… Che ne sanno i nostri figli quando non sono più i bambini con gli occhi rivolti a noi e non ancora gli adulti costretti a misurarsi con la nostra decadenza e fine?”.
Quando la morte, nelle ultime pagine, fa la sua inevitabile apparizione, il narratore può chiedersi: “Chi è la donna adulta, né ragazza né vecchia, che sorride nelle foto degli anni Settanta e Ottanta…? È mai stata passabilmente felice?”.
E allora è normale che cominci ad affiorare un senso di giustificazione che provi a spiegare qualcosa di più.
“Mi hanno detto che sono un uomo ferito. Può essere, ma tutti siamo uomini e donne segnati da qualche lacerazione che non fa più troppo male perché, anche se non ci siamo nati, ce la portiamo addosso da sempre. Qualcun altro mi dice: ‘Tua madre ti è servita, perché ti ha abituato a resistere alla vita’… Può essere, ognuno paga un prezzo, ma se è troppo salato o equo di solito non basta tutta una vita per stabilirlo… Ognuno vive quello che vive com’è stato preparato a viverlo, da se stesso, dai suoi tempi, dal destino, e confrontare quello che si sta vivendo con quello che si sarebbe potuto vivere modificando un parametro o un altro è un esercizio vano”.
La letteratura non può spiegare tutto
La sensazione, però, è che anche la letteratura corra il rischio di diventare un esercizio vano, se le si assegna il compito di spiegare tutto.
“Sarebbe scontato dedurre da quanto ho scritto finora che il mio interesse per Angela abbia tutte le caratteristiche della ferita da medicare, e trattandosi di mia madre, sarebbe altrettanto ovvio dedurne implicazioni psicoanalitiche pesanti, ma per poco che sia lecito a un autore intervenire a proposito della ermeneutica di se stesso, sarebbe un’interpretazione sbagliata o eccessiva. Per me non è stata una scrittura liberatoria, non ho cercato nessuna resa dei conti postuma: non è leale battersi coi morti, si lotta contro i vivi, e noi da vivi ci siamo battuti a lungo”.
E allora un dubbio comincia a propagarsi quando si scivola verso il finale: che quello di Franchini (leggi anche qui), a suo modo, sia un omaggio alla madre, che già in passato era stata al centro delle sue critiche?
“Scrivendo la sua storia ho reso onore al suo desiderio di recitare una parte anticonformista e scorretta. Ad Angela non è mai importato minimamente cosa si potesse scrivere di lei. Per lei la cosa che contava era che lo facesse il figlio e che il figlio fosse considerato scrittore. Basta”.
Il fuoco che ti porti dentro
A questo punto è possibile rovesciare la prospettiva e giudicarla in modo diverso: non come persona, ma come personaggio.
“Angela ha messo, nel voler essere personaggio, la stessa determinazione che altri mettono nel voler essere autori. Per essere personaggio ha forzato i toni, ha calcato la mano, ha esagerato abdicando a ogni delicatezza, pestando con strepito ogni passo sul palcoscenico della vita. Non ha lasciato l’ultima parola a nessuno, a nessuno voleva essere paragonata, ma non si è opposta al fatto che la raccontassi come volevo io”.
Intendiamoci, Il fuoco che ti porti dentro non profuma di riconciliazione, ma per due motivi di fondo: perché non c’è mai stata vera rottura e, soprattutto, perché non se ne sente il bisogno. Quando l’orizzonte degli eventi schiude l’ultima porta, in fondo, è lecito pacificarsi innanzitutto con se stessi, prima di precipitare in un silenzio che sa quasi di tenerezza.
“Ho capito che questa era la sua forma d’amore. Una forma sbagliata, ma temo che tutti gli amori siano in qualche modo sbagliati”.
A volte persino quelli delle madri. Ma anche Angela, a modo suo, ha trovato la strada che l’ha condotta al cuore di chi le ha voluto bene. Per questo la sua storia, all’improvviso, ci appare assai più vicina di quanto forse avremmo voluto.