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L’ultimo uomo bianco di Mohsin Hamid

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L’ultimo uomo bianco di Mohsin Hamid

L’incipit de L’ultimo uomo bianco di Mohsin Hamid (Einaudi 2023) è testualmente ripreso dalla Metamorfosi di Kafka, a conferma, dopo la clamorosa rilettura di McEwan del 2019 ne Lo scarafaggio, della fortuna che il racconto dell’autore praghese incontra nella recente narrativa.

Anders, “giovane uomo generoso”, gentile, sognatore, dal “sorriso indulgente”, che fa l’istruttore in una palestra “dura e pura” e per nulla fashion, scopre che la sua pelle è diventata di un “innegabile color marrone”.

“Effetto ottico nato nell’ingannevole spazio a metà fra i sogni e la veglia”?

Stupita vittima di un furto che lo ha privato della sua “bianchezza”, nell’attesa di una regressione, torna con calma ad esplorare braccia e mani delle quali è impossibile eludere “la grana più asciutta dell’epidermide e la minor visibilità dei vasi sanguigni”.

Ha la stessa statura, la stessa voce (come Gregor), solo è una persona diversa e, inevitabilmente, allo smarrimento subentrano rabbia, disperazione, insicurezza e “ansia martellante”. Finché – impostosi di uscire dopo messaggi al datore di lavoro e dopo aver prestato l’attenzione a particolari irrilevanti – esattamente come avveniva ne La metamorfosi con la descrizione della fotografia nella camera di Samsa – inizia ossessivamente ad avvertire barlumi di ostilità nello sguardo degli altri, insieme alla paranoica, frustrante sensazione di venir sorvegliato, sfiduciato, tagliato fuori e riconosciuto da chi non conosceva.

Intanto, mentre non rivela ad un padre assente, severo e malato una notizia che verrebbe letta come il suo ennesimo fallimento, incontra Oona – talentuosa insegnante di yoga “emotivamente al verde”, concentrata sulla personale sopravvivenza interiore. Incontro che si rivela un’esperienza viscerale di inquietante soddisfazione e destabilizzante tradimento.

 

La trasformazione degli abitanti da bianchi in neri

Nel frattempo i servizi di informazione della città – un “non luogo” indefinito – informano che “la gente inizia a cambiare”.Si tratta di notizie prima considerate senza fondamento, poi “eventi da verificare, quindi verificati e reali”, in una progressione da peste manzoniana.La trasformazione degli abitanti da bianchi in neri non pare contagiosa. Si diffondono comunque rancori e ostilità nei nuclei familiari, risse violente e immotivate fra amici, vengono segnalati i primi suicidi. Ovunque c’è tensione, silenzi, panico, accaparramento di provviste, incendi, pestaggi, connessioni saltate, reti elettriche in affanno.Qui il richiamo inevitabile è allo splendido, apocalittico Il silenzio di Don DeLillo (leggi qui la nostra recensione).

Scoppiano sommosse che accendono rigurgiti delle “antiche efferatezze su cui poggiano le fondamenta della comunità”. Aleggiano gli spettri incombenti di anarchia e rivoluzione. Prendono piede tesi complottiste, incubate da secoli. Milizie paramilitari aggressive e animate da “virtuosa indignazione” seppelliscono cadaveri di “nuovi scuri” e presiedono a deportazioni di massa dei mutanti.

Tra Khemiri e Saramago

Qui, insieme a Chiamo i miei fratelli di Khemiri, affine per certi aspetti, anche se politicamente più sbilanciato e schierato (trovi qui la nostra recensione), emerge in tutta la sua evidenza il modello più autorevole e ingombrante del capolavoro di Saramago Cecità.C’è un riferimento alla necessità etica, che l’inedita condizione impone, di una vista diversa per recepire emozioni, pulsioni, nonché il rapporto con l’altro e con se stessi.

Questa brillante intuizione letteraria – che ricorda, per i toni di surreale parabola postmoderna, il plot del precedente, fortunato romanzo di Mohsin Hamid Exit West (leggi qui la nostra recensione) – si risolve in un intreccio basato quasi esclusivamente sulle intime, soggettive riflessioni dei protagonisti. Di fatto non si traduce in aperta denuncia storica, sociale, razziale.

Lo stile di Mohsin Hamid

Uno stile incalzante, quello de L’ultimo uomo bianco, strutturato paratatticamente in enunciati brevi, scanditi da semplici virgole e ininterrotti per l’iterazione insistita della “e”, conferisce alla narrazione in terza persona con ottica interna pressoché fissa, le cadenze di un monologo interiore ai limiti del flusso coscienziale.

Un rapporto nuovo come la loro pelle

Così alle considerazioni sulla morte e all’ossessiva angoscia persecutoria iniziali, che lo inducono a recludersi in casa armato, si sostituisce gradualmente in Anders l’impulso irrefrenabile a vivere nel “bizzarro involucro per cocciutaggine, egoismo, speranza, paura” o semplicemente il desiderio di non rinunciare al proprio io.

Oona, senza dolore e senza panico, non logorata dall’attesa di un evento ineluttabile, elabora “con leggerezza” il lutto del legame con un’infanzia edenica e rimpianta. Abbandona la reclusione del passato e, affrancata da disinganni e tensioni, rinasce.

Entrambi (ri)scoprono la centralità di un rapporto nuovo come la loro pelle, finalmente solido, resiliente, costruttivo, capace di tradursi in un progetto condiviso, fondato sul rispetto e l’amore reciproci come testimoniato dall’inatteso, struggente capitolo 16 che dilata ellitticamente il tempo della storia, proiettandolo nel futuro della loro esistenza.

I vetri rotti spazzati via

Alla fine, per le strade rimangono ormai pochi pallidi fantasmi bianchi, consapevoli di avere i giorni contati. I danni prodotti dall’arroganza di una presunta supremazia vengono riparati, i vetri rotti spazzati via. Faticosamente si torna ad una normalità fondata su risorte regole di civiltà e tolleranza che mettono in fuga la temuta deflagrazione di un “caos terminale”.

E i due chiudono la conflittuale partita con i rispettivi genitori recuperandone, con accettabile ritardo, la stima incondizionata e un affetto troppo spesso soffocato da ipocrisia e incomprensioni.Saranno – come non lo sono mai stati né credevano ormai di poterlo essere – figli, privi di rimpianti e non costretti a fuggire o nascondersi dal loro ricordo e dalla propria coscienza.

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